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 2011  marzo 29 Martedì calendario

IL «PATRIOTTISMO» A INTERMITTENZA

Giunto al termine del mandato, Umberto Quadrino non verrà riproposto da Electricité de France alla guida di Edison e, se non interverranno sorprese, sarà sostituito da un top manager francese. Al di là dei risultati poco brillanti, condizionati dai crollo dei prezzi del gas, il cambio della guardia ha il sapore politico di una risposta al disegno del ministero dell’Economia di riportare in Italia il controllo del gruppo milanese di Foro Buonaparte ora condiviso tra Edf e l’utility lombarda A2A, troppo indebitata per tenere il punto. E dunque l’addio a Quadrino si iscrive nelle più vaste tensioni economiche tra Italia e Francia. L’arrocco L’arrocco di Henri Proglio, "pdg"di Edf, è certo una mossa provvisoria alla quale potrà seguire un accordo. Ma basta a sottolineare l’improvvisazione dell’Azienda Italia che un giorno riscopre il patriottismo economico e l’altro la circolazione senza alcun freno dei diritti di proprietà non avendo mai, né in un caso né nell’altro, una politica industriale degna del nome. Tanto per rimanere nel settore dell’energia, fa una certa impressione l’accordo tra la stessa Edf e l’Enel nel nucleare. Se il governo giudica arrogante e imperialista l’Edf, come mai l’Enel, che dal governo dipende, non solo compra la tecnologia nucleare francese ma addirittura coinvolge Edf nell’investimento produttivo in Italia? Questa seconda parte dell’accordo sull’atomo — ammesso che superi lo shock giapponese— non ha molti precedenti nel mondo. E se è vero che il nucleare italiano sarà fatto dall’Enel in consorzio con i grandi consumatori privati, dai siderurgici ai cartai, perché mai invitare al banchetto Edf? O forse i consorzi non sono così facili da costruire e allora abbiamo bisogno dei capitali francesi? In ogni caso, sarà interessante capire come il tandem nucleare Enel-Edf si rapporterà a eventuali aiuti pubblici. E tornando a Edison, non va dimenticato che l’origine della debolezza dell’azionariato italiano risale prima agli scontri di potere attorno a Mediobanca, vecchio socio di riferimento in Foro Buonaparte, e poi all’accordo che l’Aem di Milano volle fare da sola con il gigante francese, escludendo le ex municipalizzate "rosse"e le banche non ancora amiche, con la benedizione degli stessi politici che oggi ne lamentano la debolezza. Ma le incongruenze sull’energia, settore in qualche modo regolato, non sono nulla rispetto alle contraddizioni del governo nei settori esposti davvero alla concorrenza come, per esempio, il lattiero-caseario e l’automobile. Diversamente dai governi francesi di ogni colore che considerano Danone il campione nazionale del made in France alimentare, quelli italiani hanno lasciato andare tranquillamente all’estero alcuni dei più importanti marchi del made in Italy alimentare, a cominciare da Galbani, che ben più del latte incorporano valore aggiunto produttivo e commerciale. Ora si scopre che Parmalat è strategica. E che ne va difeso il radicamento domestico. Chi crede che l’avere i quartier generali delle grandi imprese in patria sia un bene per il Paese potrà dire: meglio tardi che mai. Ma che senso ha cercare di condizionare il libero gioco dei diritti di proprietà sulla Parmalat e chiudere gli occhi davanti alla Fiat Auto che ben più dell’azienda di Collecchio influisce sul sistema manifatturiero italiano? Il rischio dell’opacità Davanti alla scalata a Parmalat a opera di Lactalis, società opaca perché nasconde i bilanci, il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, studia salvaguardie di sapore protezionista. Ma davanti a Sergio Marchionne, che non ha mai illustrato seriamente né ai sindacati né al governo i suoi piani su Chrysler, il governo nulla esige. Anzi, per bocca del premier Silvio Berlusconi, giustifica il trasferimento della sede di Fiat-Chrysler negli Usa se gli operai seguono troppo la Fiom. Lo stesso establishment finanziario italiano mostra una debolezza che non è solo economica. In Generali ferve una discussione senza esclusione di colpi sulla trasparenza della joint-venture Generali-Ppf per l’Est Europa, affare importante ma non enorme e, soprattutto, senza dirette conseguenze in Italia. Nell’informazione Fiat al mercato, l’accordo con Chrysler è stato esposto con non minore reticenza, in particolare per quanto riguarda le possibilità di ascesa anticipata al 51%della casa di Auburn Hills con le conseguenze che oggi confermano tutti i dubbi a suo tempo manifestati sul Corriere. Eppure, benché Torino abbia chiarito solo dopo il sollecito della Consob a seguito delle rivelazioni di questo giornale, il sistema finanziario non discute. Affronta la questione della compagine azionaria di Parmalat fuori tempo massimo, non quella della Fiat quando è ancora in tempo. Marchionne ammette finalmente che la sede sarà allocata nei mercati più favorevoli al finanziamento del gruppo. E tutti capiscono che quando Wall Street riammetterà al listino Chrysler, i giochi saranno compiuti per chi specula giorno per giorno. E il governo italiano non è nemmeno capace di ricordare che, intanto, sono le banche italiane a prestare denari alla Fiat senza nemmeno vedere il piano, e non le banche americane, e che sono stati gli azionisti della Fiat, con aumenti di capitale e cessione dei gioielli di famiglia, e ancora le banche italiane, con il convertendo organizzato dalla Banca d’Italia, a salvare il gruppo dal baratro. E’così corta la memoria dei manager? Così legata ai tempi delle stock option? Può essere così smemorato il governo della Repubblica? Il patriottismo economico è materia opinabile. I liberisti lo avversano sognando il modello anglosassone, i fautori del modello renano lo promuovono. Ma sempre ci vogliono serietà e metodo: né l’una né l’altra politica funzionano se vengono perseguite ad aziendam e a intermittenza.
Massimo Mucchetti