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 2011  marzo 30 Mercoledì calendario

LA CULTURA CHE DÀ DA MANGIARE

Può essere strategico lo yogurt?, si domandava la settimana scorsa l’Economist, ironizzando sulla lotta in corso per il controllo della Parmalat. Strategico in senso stretto certamente no, e l’ha già chiarito questo giornale, che ha riferito come l’industria dei latticini non sia collocata fra i settori difesi come essenziali per la sua compagine economica.

Dunque nemmeno l’Italia, difendendo la proprietà italiana di Parmalat dall’offensiva di Lactalis, potrebbe attestarsi sull’affermazione del carattere strategico del gruppo di Collecchio. Ma almeno la domanda dell’Economist ha il merito di riportare il confronto in atto sulla Parmalat al prodotto che è specifico di quest’impresa e che ha finito con lo scivolare del tutto in seconda linea rispetto alla contesa in atto.

Come se la questione del destino della Parmalat potesse venire ricondotta o al suo assetto societario o alla rilevante massa di liquidità che l’azienda custodisce attualmente nelle proprie casse. E invece il settore alimentare richiama per sua natura alla materialità e alla concretezza dei prodotti e delle filiere agroindustriali che confluiscono nei suoi processi.

Pochi marchi come quelli delle grandi imprese alimentari entrano altrettanto assiduamente nella quotidianità dei modelli di consumo e s’imprimono nella memoria degli acquirenti. Anzi, il paradosso dei marchi alimentari è di oscillare tra l’essere considerati come valori economici astratti, proprio alla maniera in cui se ne sta parlando in questi giorni, o l’essere ridotti, all’opposto, alla specificità delle confezioni che affollano gli scaffali dei supermercati. Nell’un caso come nell’altro, a essere oscurata è proprio la loro sostanza industriale.

Ferrero, Parmalat, Barilla, Lavazza sono marchi notissimi che identificano prodotti di largo consumo, continuamente presenti all’attenzione dei consumatori grazie alla frequenza dei passaggi pubblicitari televisivi, di cui ben di rado si percepisce la consistenza industriale. Non a caso, si stenta a cogliere la dimensione d’impresa che sorregge la loro penetrazione di mercato e se ne smarrisce il rilievo all’interno del sistema produttivo italiano.

Eppure, l’alimentare è un settore dove la nostra presenza è più articolata e complessa, consegnata a una sorta di peculiare made in Italy in cui convivono altissime nicchie di qualità e prodotti rivolti al consumo di massa. Questo complesso, considerato da una prospettiva unitaria, costituisce senza dubbio un punto di forza della nostra industria e del sistema agroalimentare che ne forma il retroterra.

A far sbiadire i contenuti industriali delle maggiori imprese alimentari ha contribuito la stessa cura posta nella comunicazione del prodotto. La pubblicità ha teso col tempo a valorizzare, ancor più che gli specifici prodotti, una cornice ambientale dove la qualità è restituita quasi sempre alla dimensione della normalità quotidiana, fatta di comportamenti tramandati di generazione in generazione che pongono in ombra l’innovazione di prodotto e di processo. Oppure il messaggio pubblicitario fa leva su personaggi e situazioni da sitcom televisiva, che propongono stili di consumo reiterati quasi automaticamente.

Al contrario, chi conosce l’industria alimentare dall’interno sa che l’innovazione la percorre in misura non inferiore ad altre realtà industriali. I processi di controllo e di verifica della qualità richiedono perfezionamenti e aggiustamenti tecnologici. Le modifiche e gli interventi apportati alla catena alimentare sono incessanti. La stessa organizzazione del lavoro, col superamento delle distinzioni fra le attività esecutive e quelle di manutenzione, viene trasformata in più realtà aziendali, con un ridisegno delle mansioni che include elementi di riprofessionalizzazione.

Come si vede, esiste una pluralità di fattori tale da fare dell’alimentare una componente industriale di rilievo, per la qualità dei processi che ospita oltre che per i risultati economici. Accanto a ciò, va infine ricordata l’importanza del radicamento territoriale di attività che si identificano con le aree che le hanno viste sorgere e svilupparsi. Si pensi al binomio fra Parmalat e Collecchio e tra Ferrero e Alba, dove il rapporto col territorio è stato essenziale per la possibilità di crescita dell’azienda. Ma si pensi anche al senso di appartenenza che lega la Lavazza a un’area dai tratti iper-industriali come Torino, in cui l’azienda ha riconfermato la propria vocazione produttiva.

Tutto questo non renderà l’alimentare "strategico" nel senso in cui ne parla l’Economist. Ma evoca un’immagine dell’industrialismo italiano da cui sicuramente il settore non può essere espunto, pena un impoverimento complessivo delle nostre radici manifatturiere. È questa complessità della struttura industriale italiana che deve essere recuperata in una logica capace di consolidare interdipendenze e legami di filiera da incentivare. Un compito che la politica industriale dovrebbe affrontare con un respiro e una visione ben diversi rispetto a manovre meramente difensive e protezionistiche.