MARCO ALFIERI, La Stampa 31/3/2011, 31 marzo 2011
Italiani all’estero lo shopping vale 460 miliardi - Gli ultimi colpi sono di due giorni fa. Lontana dal frastuono del caso Parmalat la milanese Gi Group si è comprata Right4 staff, la terza agenzia britannica di lavoro temporaneo nel reclutamento di «blue collar»
Italiani all’estero lo shopping vale 460 miliardi - Gli ultimi colpi sono di due giorni fa. Lontana dal frastuono del caso Parmalat la milanese Gi Group si è comprata Right4 staff, la terza agenzia britannica di lavoro temporaneo nel reclutamento di «blue collar». Londra si aggiunge a mezza Europa, Cina, India, Brasile e Argentina nel mosaico di questa global company ormai vicina a 1,2 miliardi di fatturato, unica bandierina italiana tra le multinazionali specializzate in servizi per il lavoro. Il gruppo Uvet, invece, polo distributivo nel turismo con ricavi a 1,6 miliardi è diventata primo azionista di Avexia Voyages, società parigina leader nei viaggi d’affari per le Pmi. «L’obbiettivo spiega il presidente Luca Patanè - è costruire una rete leader in Europa nel segmento business travel». Certo non saranno i tour operator a vendicare lo scalpo di Collecchio ma qualche contropiede oltre le Alpi lo sappiamo ancora infilare. Predatrici tricolori Nei giorni caldi della guerra italo-francese come se la passa all’estero la Corporate Italia? Gli stranieri ci piombano in casa solleticando i demoni del protezionismo ma le nostre aziende, oltre all’export, sanno essere predatrici? Secondo l’Istat, le controllate all’estero di imprese italiane sono 22.715, i soggetti investitori 6.426, gli addetti oltre 1,3 milioni e il fatturato complessivo 460 miliardi. Nel manifatturiero la presenza è densa nella meccanica e nel tessileabbigliamento anche se, quanto a localizzazione industriale, per numero di addetti vince ancora il capitalismo povero della Romania (dove diamo lavoro a 116 mila persone), davanti a Brasile (75.000), Cina (66.000) e Francia (57.000), con una dimensione media di 70,9 dipendenti/azienda. Per Marco Mutinelli e Sergio Mariotti, autori di Italia Multinazionale 2010 , «il nostro grado di internazionalizzazione è più basso rispetto a quello dei maggiori partner europei». Secondo i dati Unctad, il rapporto tra lo stock degli investimenti in uscita e il Pil è pari al 27,4% contro il 55% della media Ue. Idem sugli investimenti in entrata: lo stock sul Pil vale il 18,6% (media Ue 45,5%). In sostanza nel mercato globale si è insieme «prede» e «cacciatori» o non si è nulla. La stessa Francia, nell’occhio del ciclone perché usa spesso il nazionalismo economico, attira investimenti due volte e mezzo l’Italia. L’internazionalizzazione delle nostre imprese all’estero appare così aderente alla struttura frammentata del Paese: processi di delocalizzazione verso Europa dell’Est e Mediterraneo; buona presenza commerciale nei Paesi affascinati dall’estetica italiana (Giappone); e posizione marginale nelle porzioni di mondo più attrattive: Americhe e Asia-Pacifico, ormai la prima area per investimenti, con il 34,5% degli Ide totali. Per questo la grancassa intorno a Parmalat è il frastuono di un Paese senza politica industriale che si scopre indifeso nelle guerre di mercato. «Noi ci siamo sempre pensati globali anche quando siamo nati da zero», spiega Stefano Colli Lanzi, Ceo di Gi Group. «Le acquisizioni sono il frutto di una strategia di crescita internazionale». In Italia, invece, «esiste un contesto di aziende magari forti sulla tecnologia e sul prodotto, ma con poca cultura di impresa complessa. Non bastano le idee, se poi il sistema lo fanno gli altri...». Tanto più se negli ultimi 40 anni il nostro capitalismo è uscito da comparti a grande valore aggiunto: informatica, elettronica e quindi hi-tech, chimica-farmaceutica. L’esempio di Olivetti In principio fu l’Eni di Enrico Mattei e l’acquisizione della Underwood da parte di Olivetti, correva l’anno 1959. Passando per l’ebbrezza dei mitici Ottanta (Raul Gardini che scala Beghin-Say, gli Agnelli alla campagna francese con Perrier ed Evian e l’assalto fallito di Carlo De Benedetti alla Sgb) fino alla delocalizzazione diffusa dei Novanta, le Pmi che vanno a produrre nell’Est Europa, Timisoara Italia. A questa fase espansiva segue la morta gora dei primi anni zero. Le nuove iniziative all’estero scendono dalle 400 l’anno alle 150-200 del 2003-2006. Le poche grandi imprese rimaste in piedi si accucciano e dismettono partecipazioni: da Parmalat a Montedison a Telecom Italia in America Latina. Bisogna attendere il 2006 per rivedere qualche sprazzo dei nostri (pochi) Big. Unicredit compera Hvb, Mediaset va su Endemol, Enel rileva Endesa, Finmeccanica acquista Drs, Eni Distrigaz, Luxottica che monopolizza il retail degli occhiali imbarcando RayBan, Oakley e Sunglass Hut, Autogrill che sfila Host al colosso Marriott, Prysmian (gli ex cavi Pirelli) che si compra l’olandese Draka e poi l’operazione Fiat su Chrysler, il principale buyout italiano negli Usa. Ma soprattutto, sotto i big, comincia a muoversi una pattuglia di medie/grandi imprese dal passo tedesco: Amplifon, Datalogic che si compra la californiana Evolution Robotics Retail, Lavazza che entra in Green Mountain Coffee Roasters, il big americano delle macchine per il caffè, fino a Campari con Carolans, Frangelico e Irish Mist. Durante la crisi, quasi 2 mila imprese italiane hanno messo il naso all’estero facendo shopping, specie in Spagna (+19%), Sudamerica (+12,7%) e Paesi Bric (+11,7%). Il flusso è in crescita dell’8,7% sul 2007. Certo ancora piccoli numeri ma è su questo refolo che bisogna concentrarsi, facendo diventare la pattuglia un esercito. Più che alzare ponti levatoi...