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 2011  marzo 31 Giovedì calendario

RISCHIO CREDIT CRUNCH DA 436 MILIARDI

Per chi fa le regole, l’impatto sarà graduale e soprattutto modesto. Secondo chi invece deve recepirle, cioè le banche, le nuove norme potrebbero rivelarsi un boomerang per l’economia. Il destino di Basilea 3 è far discutere, ed è inevitabile, così come impossibile sarà mettere d’accordo le parti in causa. Una cosa però è certa: per quanto possa essere diluita nel tempo, la rivoluzione normativa non sarà indolore per i clienti, siano essi famiglie o imprese. Rendere il sistema finanziario più stabile e a prova di crisi future ha del resto un costo, che in parte sarà verosimilmente scaricato sugli utenti finali.

Valutare con precisione il conto da pagare è impresa impossibile, anche perché le variabili che fanno parte del gioco (molte delle quali ancora da definire) sono numerose e strettamente interconnesse fra loro. Un’idea la offre la ricerca «Mercati, Banche e Imprese verso Basilea 3: un confronto internazionale» realizzata nell’ambito del Club Ambrosetti, guidato e coordinato da Paolo Savona in qualità di Advisor e da Filippo Peschiera, Senior Consultant di The European House-Ambrosetti. E non si tratta di una simulazione incoraggiante: in base allo studio (presentato domani a Villa d’Este di Cernobbio) l’introduzione delle nuove norme potrebbe costringere imprese e famiglie a rinunciare fino a 436 miliardi di euro di nuovi prestiti, quasi un quarto dell’intero stock erogato dalle banche italiane.

Effetto a catena

Basilea 3 potrebbe quindi tradursi in un disastro per l’economia italiana, ma è bene mettere in chiaro che quello appena tratteggiato è lo scenario peggiore possibile e che alla fine i costi della «rivoluzione» saranno divisi fra banche e clienti. Per capire in quale proporzione è utile fare un passo indietro e ricordare i canali attraverso cui si passa da una disciplina più rigorosa al credit crunch. Le nuove norme impongono sostanzialmente alle banche di avere, a parità di impieghi, un quantitativo di capitale maggiore e di migliore qualità. Gli istituti saranno quindi costretti a scegliere: nei due casi estremi aumenteranno il capitale mantenendo invariate le attività rischiose, oppure ridurranno gli impieghi, cioè i prestiti.

La prima strada è ovviamente poco agevole per le banche italiane, che si trovano costrette a chiedere denaro al mercato in un momento in cui possono offrire rendimenti decisamente magri, in media addirittura inferiori al 4,8% dei BTp. Ed è anche onerosa, come dimostra il tonfo di Ubi Banca in Borsa dopo l’annuncio della ricapitalizzazione da un miliardo lunedì scorso. La misura dell’eventuale riduzione degli impieghi dipende invece dalle ipotesi che si fanno sui futuri requisiti di capitale. Lo studio European House-Ambrosetti prende in considerazione due livelli: uno scenario più severo in cui il patrimonio di qualità primaria (common equity) sia pari al 7% e il patrimonio totale al 10,5%, e un’ipotesi più blanda con i due requisiti richiesti rispettivamente al 4,5% e all’8%.

Raggiungere i livelli ideali nel primo caso porterebbe, secondo le stime della Banca d’Italia, un aumento del fabbisogno complessivo per gli istituti di credito pari a 40 miliardi. Se le banche non potessero (o non volessero) raggiungere l’obiettivo attraverso ricapitalizzazioni dovrebbero in alternativa ridurre i prestiti di 436 miliardi di euro, il 24% rispetto allo stock del 2009. In particolare la restrizione del credito per le imprese sarebbe di 206 miliardi, ovvero il 13,9% del Pil italiano e questo rende l’idea del danno potenziale. Un effetto che nell’ipotesi meno drastica sarebbe ancora significativo (fabbisogno a 12 miliardi, minori impieghi per 172 miliardi, 9% dello stock) e renderebbe impercorribile anche questa strada.

La realtà sta ovviamente a metà strada fra uno scenario così penalizzante e l’impatto soft auspicato dal Comitato di Basilea. Questo perché i nuovi standard saranno introdotti con gradualità dando così modo a banche e mercati di prendere le misure. E anche perché è impensabile che gli istituti di credito non riescano a realizzare del tutto aumenti di capitale. Ma anche sotto questo aspetto si potrebbero celare pericolose insidie per il cliente finale: «Per cercare di convincere gli investitori a sottoscrivere le ricapitalizzazioni – spiega Savona – le banche dovranno per forza incrementare la redditività, tagliando i costi e aumentando i prezzi dei servizi. Collocare i 40 miliardi necessari potrebbe comportare un incremento dei tassi sul credito dall’attuale 4,2% al 5,6%». In altre parole, gli spread su finanziamenti e mutui saranno destinati a crescere e questa non è certo una bella notizia per imprese e famiglie a una settimana dall’ormai quasi certo rialzo del costo del denaro da parte della Bce.

Le vie di uscita

Lo studio del Club Ambrosetti cerca di andare però oltre le difficoltà del momento e di prospettare soluzioni per impedire il paventato collo di bottiglia. Un pensiero va prima di tutto alle imprese, che potrebbero sfruttare le avversità in modo da tagliare il cordone ombelicale con le banche (dalle quali ricevono il 69% dei finanziamenti contro il 54% della media europea) e sviluppare canali alternativi. «Per questo - sottolinea Savona – è fondamentale avviare la creazione di un mercato dei corporate bond, finanziamento di fatto precluso alle imprese di piccole dimensioni, e potenziare il mercato del private equity anche con l’intervento della Cassa depositi e prestiti, come avviene in Francia».

Sotto questo aspetto, rileva ancora la ricerca, il legislatore potrebbe «individuare strumenti, anche politiche fiscali, per aiutare l’imprenditore a vincere la tradizionale ritrosia all’apertura del capitale a terzi». E le stesse banche dovrebbero fare la propria parte «ripensando il proprio modello di business a favore di un rafforzamento delle attività di servizio». In un mondo ideale la minaccia di Basilea 3 potrebbe anche trasformarsi nell’occasione per superare alcune storiche fragilità italiane.