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 2011  marzo 31 Giovedì calendario

I RIS: COSÌ FACCIAMO PARLARE I REPERTI


ROMA - Era la fine dell’89 quando, per la prima volta in Italia, è stata introdotta in un processo la prova del Dna. Si discuteva in aula il delitto di Balsorano, l’omicidio della piccola Cristina Capoccitti, per il quale venne condannato, non senza dubbi e polemiche, lo zio Michele Peruzza. I giudici l’hanno considerata la prova regina, e il parente è finito dietro le sbarre a vita. Da quel momento l’analisi del codice genetico è stata di fondamentale importanza in ogni inchiesta, facendo passare in secondo piano le impronte digitali. Sono passati più di venti anni da quel giorno e la scienza è andata molto avanti, raffinando le sue tecniche. Quello che i periti non hanno visto nel ’91, subito dopo l’omicidio della contessa Alberica Filo della Torre, è stato individuato oggi e grazie ai marcatori genetici, quelli che vengono chiamati “combur-test”, e che sono come una sorta di esame per la glicemia, le striscette che i diabetici portano sempre con sé per verificare il tasso di zucchero nelle urine. Si tratta di una specie di “cartine” che cambiano colore a contatto con il sangue e che si sviluppano su elementi genetici, come il colore degli occhi, il sesso, il colore dei capelli. Nel ’90 ne venivano usati due o tre, oggi se ne utilizzano 16, o addirittura 17, come nel caso della nobildonna romana. E forse per questo che l’esame diventa praticamente inconfutabile.
Prendiamo a esempio il lenzuolo trovato nella stanza della contessa uccisa all’Olgiata. L’esame, sebbene sia stato già rifatto nel 2007 (dopo i primi accertamenti nel ’91) con un kit uguale, non aveva dato gli stessi risultati. Invece, nei giorni scorsi, mentre gli esperti della sezione biologia del Ris analizzavano il reperto, questo ha cominciato a “parlare”. «Abbiamo esaminato il lenzuolo interamente e non a campione - spiega il colonnello Luigi Ripani, che comanda il gruppo romano - Delle 51 tracce ematiche, 50 di colore più vivido sono risultate della contessa. Una, quella riconducibile a Winston, invece, è risultata di un colore più chiaro, sangue misto a siero che potrebbe essere stato determinato anche dall’abrasione al gomito sinistro riscontrata sul filippino all’indomani del delitto».
La vera novità rispetto agli anni ’90, comunque, sottolinea ancora Ripani, «è che le tracce non si distruggono dopo l’analisi e possono essere molto più piccole. Venti anni fa se si faceva l’esame del codice genetico, l’accertamento diventava irripetibile. Ora basta una macchia infinitesimale per ottenere un risultato. È cambiata di molto la sensibilità e, a parità di dna presente, si ottiene un dato migliore. Inoltre, i nuovi kit sono più resistenti agli inibitori e a qualunque sostanza che permette di ottenere un profilo». È sempre attraverso i marcatori, o locus genetici, che si ricavano gli elementi riconducibili a una determinata persona. Gli esperti del Ris si servono ormai di un robottino per analizzare le provette. E quando si trovano sulla scena del delitto, vestiti con tuta bianca monouso, calzari, mascherina sulla bocca e guanti di gomma, mettono in campo il “Crimescope”, una lampada speciale con la quale si riescono a vedere tracce di liquidi organici. La scoperta del sangue, invece, è affidata al luminol, una sostanza che si “accende” al buio e che evidenzia le tracce più nascoste, anche a distanza di molto tempo.

C.Man.