Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  marzo 31 Giovedì calendario

Goude JeanPaul

• Saint Mandé (Francia) 8 dicembre 1940. Illustratore, regista, pubblicitario, fotografo, direttore artistico, organizzatore di eventi • «Molto tempo prima della pelle irrealmente levigata e degli arti truffaldinamente allungati da Photoshop c’era la French Correction a base di forbici, scotch e colori ad olio: una tecnica inventata da Jean-Paul Goude negli anni Settanta, “quando il politicamente corretto non aveva ancora limitato le libertà e si poteva inventare con un po’ di humour”. Goude si fece ispirare da una mostra sull’Africa per disegnare il bozzetto di una donna straordinaria, dalle gambe meravigliosamente slanciate e i glutei tanto scolpiti da potervi appoggiare sopra una coppa di champagne. “Sono partito da un’idea, poi l’ho disegnata, fotografata, e completata tagliando la foto a pezzi, distanziando le parti e dipingendo gli spazi. Così nacque il ritratto di Carolina, che per me fu la celebrazione, il trionfo divertito della bellezza femminile nera”, ricorda [...] il maestro della fotografia e della pubblicità francesi, pigmalione di Grace Jones e ora direttore creativo delle Galeries Lafayette. All’epoca nessuno si sognò di criticare quell’uso del nudo in fotografia, “tutti si svestivano, si viveva ancora nel clima di liberazione sessuale e il corpo era giudicato elegante, mai volgare. I problemi stanno venendo fuori oggi, la curatrice di una mia mostra a Londra mi ha avvertito di email furibonde che parlavano di sfruttamento dell’immagine della donna. Non lo capisco. Bisognerebbe sempre conservare il senso dell’umorismo”. Jean-Paul Goude si definisce “un illustratore, un disegnatore, più che un fotografo. I miei sono ritratti più che fotografie, descrivo la mia idea della realtà, sublimata, più che la realtà. Ma non credo di stravolgere i miei modelli: piuttosto, esaspero le loro caratteristiche. Mi piace rendere un uomo grasso ancora più grasso; una bellissima donna nera, dalle forme eleganti e dal sedere perfetto, ancora più slanciata. È un gioco di esagerazioni che mi ha sempre appassionato”. Il successo planetario di Goude è legato alla French Correction e a Grace Jones, la cantante di origine giamaicana incontrata allo Studio 54 di New York e trasformata in icona androgina (non solo gay) degli anni Ottanta, con copertine di dischi come Nightclubbing e video visionari come Slave to the Rhythm. L’ultimo scandalo di Goude è stata la campagna pubblicitaria per la collezione uomo delle Galeries Lafayettes: lo scrittore Frédéric Beigbeder ritratto in jeans a torso nudo, nell’atto di distogliere lo sguardo dal libro La societé de consommation di Jean Baudrillard. “Stavolta a protestare sono stati soprattutto i nemici di Frédéric, che non riescono a sopportare l’esistenza sul nostro Pianeta di un uomo colto, intelligente, brillante, mondano, pieno di donne, divertente e capace di divertirsi. A me invece sta simpatico, siamo amici. Il libro di Baudrillard è un omaggio al filosofo [...] e crea uno straniamento che io trovo ironico e buffo. Jean avrebbe apprezzato, credo”. Beigbeder ha un fisico così perfetto? “Naturalmente no, come sempre ho fatto ricorso al fotomontaggio. Ho ritratto un Beigbeder sublimato, il Beigbeder che potrebbe essere se non passasse le notti a bere e a mettere dischi nei club”. Il lavoro di Goude, come rivendica lui stesso, non è di pura fotografia ma immerso nel mercato e nella società: pubblicità (usò la sua musa Grace Jones per un memorabile spot della Cx Citroën), musica, video; nel 1989 diresse la sfilata parigina per il bicentenario della Rivoluzione francese. [...] “Devo fare sempre più attenzione, combattere per non scendere a troppi compromessi fa parte del gioco. [...]”» (Stefano Montefiori, “Corriere della Sera” 14/2/2008) • «La febbre della giungla lo ha contagiato subito, fin da bambino. Il suo eroe era Sabu, il felino protagonista di film cult degli anni 40 come Il libro della giungla e Il ladro di Bagdad. I suoi “amici” più cari erano i grandi animali africani che ammirava per intere giornate nello zoo vicino casa. [...] “[...] Se rivedo il film della mia vita, non sono cambiato affatto. Le emozioni provate allora hanno accompagnato tutto il mio lavoro. Gli anni della mia infanzia sono stati decisivi per sempre. C’è una continuità assoluta tra quelle esperienze e quello che faccio o farò”. Celebrato signore dell’immaginario collettivo, eclettico detentore di talenti (è illustratore, regista, pubblicitario, fotografo, direttore artistico, organizzatore di eventi) con una fantasia scatenata, ha legato il suo nome a campagne famosissime con Grace Jones (da cui ha avuto un figlio), Vanessa Paradis, Laetitia Casta. Nel 1989 per il bicentenario della Rivoluzione francese Goude ha incantato i potenti della Terra, da François Mitterrand a Margaret Thatcher, con la Grande Parata che ha visto sfilare per una intera giornata sugli Champs-Elysées migliaia di danzatori e modelle di ogni parte del pianeta, elefanti, un treno... Insomma, una sintesi tra grandeur francese e Villaggio Globale a unanime giudizio “il più grande spettacolo del mondo” allestito finora. [...] Una carriera nel segno dell’eccesso: e tutto è cominciato con la danza... “Sì, mia madre era una danzatrice e aveva anche una scuola di ballo. Nonostante questo, il mio interesse per la danza è stato tardivo. Allora era considerata una disciplina ‘per ragazzine’! Poi, a 18 anni, mentre studiavo art déco, alla Cinémathèque di Parigi ho visto tutti i film musicali americani e questo ha cambiato la mia vita. Volevo diventare regista di musical e, così, ho pensato di prendere lezioni. A New York, però, Robert Joffrey, patron dell’American Ballet Center, mi ha gelato: ‘Hai la testa troppo grande, le gambe troppo corte, non puoi fare il solista, puoi restare nel coro’. Allora ho detto: ciao. Ma la danza è rimasta un’ispirazione fondamentale”. La sua carriera è segnata da due amori: l’America e soprattutto l’Africa. Come si è sviluppata e che importanza ha avuto la passione per l’Africa? “Non ho scoperto l’Africa attraverso la scultura come è accaduto a molti artisti, da Modigliani a Brancusi, ma attraverso il Museo delle colonie che ho frequentato da ragazzo. Lì, ho conosciuto le culture ‘altre’: quelle del Maghreb, dell’Africa del nord, ma anche del Vietnam e dei paesi arabi. E me ne sono innamorato. Mi affascinava l’idea dell’esotico, del “selvaggio’: una mescolanza di politica e di estetica. Allora non mi rendevo conto che si trattava di un’Africa sognata più che reale. Quando ho conosciuto la ‘vera’, era già industrializzata, moderna, non aveva la magia di quella che mi aveva sedotto [...] La Francia era a capo di un enorme impero di colonie che era stato celebrato dall’Esposizione coloniale del 1930 con migliaia di rappresentanti provenienti da tutto il mondo. Soltanto molto tempo dopo c’è stata la denuncia del colonialismo. Negli anni della mia giovinezza prevaleva l’aspetto esotico-sognato di queste culture che io avrei conosciuto realmente attraverso le donne che ho amato e mi hanno permesso di sviluppare i miei fantasmi [...] A New York, sono arrivato negli anni 70 come direttore artistico della rivista Esquire, un ruolo molto importante. Naturalmente, conobbi Warhol. Frequentavo la Factory tutti i giorni. È stata la prima comunità artistica che mi ha conquistato perché era aperta alla vita vera. Andy e la Factory erano un barometro indispensabile per capire cosa accadesse nel mondo [...] Ho lavorato basandomi sempre sulle mie esperienze e sulla mia sensibilità. Non bisogna puntare o farsi tentare troppo dal denaro. Il successo può essere un boomerang difficile da tenere a bada. C’è il rischio di perdere il controllo della propria immagine [...] Grace ha rappresentato una sintesi della bellezza africana classica e di alcuni miei fantasmi. All’epoca del nostro incontro, era già una star. Io ho definito la sua immagine con una serie di paradossi e di forti provocazioni. [...]”» (Massimo Di Forti, “Il Messaggero” 26/1/2009).