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 2011  marzo 31 Giovedì calendario

Cameriere, un Martini Con molta musica e grande letteratura - Non per essere pe­danti né per fare i saccenti, ma la na­scita del Martini esattamente un secolo fa è un’in­venzione, oppure una conven­zione

Cameriere, un Martini Con molta musica e grande letteratura - Non per essere pe­danti né per fare i saccenti, ma la na­scita del Martini esattamente un secolo fa è un’in­venzione, oppure una conven­zione. In the Silver Bullet: The Martini in the American Civili­zation ( The Johns Hopkins Uni­versity Press), il saggio del pro­fessor Lowell Edmunds che da trent’anni è la Bibbia in mate­ria, è raccontato come, già a fi­ne Ottocento, esistesse nei ma­nuali per barmen il bicchiere per il Martini e una sua immagi­ne illustrata appare fra il 1900 e il 1909. Allo stesso periodo risal­gono anche le prime referenze letterarie: Hidley Dhee e O. Henry. È altresì vero che fra Martini, Martinez e Martine l’origine stessa della parola re­sta sconosciuta e, come nota Edmunds, si può dire di questo cocktail ciò che nella Poetica Aristotele scrisse sulla nascita della tragedia: «Essendo passa­t­a attraverso molti cambiamen­ti, trovò infine la sua forma natu­rale e lì si fermò». Invenzione oppure conven­zione, fosse per noi festegge­remmo la nascita del Martini ogni giorno che Dio manda in terra e, per quanto diffidenti nei confronti degli Stati Uniti, non possiamo che inchinarci di fronte alla celebre formula coniata da Bernard De Voto: «Il supremo dono americano alla cultura mondiale». La pensava così anche il grande H.L. Menc­ken: «L’unica invenzione ame­ricana perfetta come un sonet­to »; e del resto non esiste altro cocktail al mondo che possa vantare per sé una colonna so­nora firmata da Cole Porter: « They have found the fountain of youth/ Is a mixture of gin and vermouth »... Nel film Il laureato , Ann Ban­­croft, ovvero Mrs Robinson, va al Taft Hôtel, dove di lì a poco inizierà la sua storia di sesso con Dustin Hoffman, ovvero Benjamin, ordina un Martini e le viene in mente una poesia, forse di Doroty Parker: «I like to have a Martini,/ Two at the very most./ After three I’m under the table,/ After four I’m under my host». Apocrifi o meno, i ver­si in questione rimandano a una verità euclidea. Un doppio Martini è la perfezione dei sen­si, quel che viene dopo, che sia sotto un tavolo o dentro un let­to, è semplice ubriachezza... E però, come non perdersi di fronte a un flûte di cristallo dal gambo lungo che poi si allarga come fosse una piramide rove­sciata, colmo fino all’orlo di un liquido perlaceo eppure traspa­rente che alla luce manda rifles­si giallognoli e nel quale ti puoi specchiare? Una volta bevuto­lo, senti lo stomaco allargarsi e nel corpo una sensazione di quieta felicità e quando fai il bis comincia a impadronirsi di te una sottile euforia, come se niente al mondo ti possa o ti debba preoccupare. La prima descrizione di cosa fosse un cocktail risale al 1806, apparve sul periodico america­no The Balance e suonava così: «Una bevanda stimolante com­posta da diversi alcolici, zuc­chero, acqua e bitter». Anche qui, l’origine della parola è oscura,ma la si fa risalireall’ini­zio di quel secolo, quando l’esercito americano degli Stati Uniti del Sud entrò in contrasto con il re messicano Axolotl VIII. Nei negoziati che ne seguirono, il sovrano chiese al generale americano se volesse bere qual­cosa, e questi acconsentì. Ap­parve allora una ragazza bellis­sima, con in mano una coppa di oro e di rubini colma di un liquido da lei stessa preparato. Ci fu un attimo di silenzio e di preoccupazione. Chi avrebbe bevuto per primo e/o da solo? La giovane risolse il problema chinando reverentemente il ca­po e bevendo di un fiato dalla coppa. Il generale chiese chi fos­se quella fanciulla: «È mia figlia Coctel» replicò il re. «Bene, farò in modo che il suo nome sia per sempre onorato dal mio eserci­to ». Coctel divenne coktail e questo è quanto basta. È comunque con la seconda metà dell’Ottocento che il ter­mine assunse veramente il suo significato moderno, in con­temporanea con il sorgere dei primi grandi alberghi interna­zionali e con l’apparire della pri­ma vera clientela cosmopolita. Ed è allora, del resto, che il Mar­tini nasce negli Stati Uniti e ne diventa per molti versi l’incar­nazione. Grandi alberghi e clientela co­smopolita, abbiamo detto. Ag­giungeteci un bancone da bar di quelli in legno scuro, luci bas­se, fumo di sigarette, cuoio del­le poltrone, scrittori d’oltreoce­ano e sarà subito chiaro di che cosa stiamo parlando. L’età d’oro dei cocktail è stata quella, la prima metà abbondante del XX secolo, il secolo americano per eccellenza, ma degli ameri­cani innamorati dell’Europa. In nemmeno due capitoli di Di là dal fiume, tra gli alberi di He­mingway, c’è spazio per una dozzina di Martini. «“Prendia­mone un altro” disse la ragaz­za. “Lo sai che non ne ho mai bevuti prima di conoscerti”. “Lo so. Ma li bevi talmente be­ne” ». Ed è qui che si trova la cele­bre formula del Martini Mont­gomery: «“Due Martini molto secchi” disse il colonnello. “Montgomery. Quindici a uno”. Il cameriere, che era sta­to nel deserto, sorrise e scom­parve »... Nell’ Uomo ombra di Dashiell Hammett, Nora Char­les agita lo shaker nella sua stan­za d’albergo e il marito Nick, che è in giardino, fa al figliolet­to: «Qualcosa mi dice che qual­cosa d’i­mportante sta accaden­do da qualche parte e penso do­vremmo essere lì». Dalla fine­stra la cameriera di Nora si stu­pisce di vederlo marciare verso la hall. Ha sentito il rumore del­lo shaker o l’odore dell’alcool? «Cara, questo è un cocktail» ri­sponde lei. Ed è sempre Nick Charles a spiegare al barman del Normadie che se il Manhat­tan va shakerato come al ritmo di un foxtrot e il Bronx come fos­se un twostep, per il Martini ci vogliono le cadenze di un val­zer. Tempo vent’anni e saremo all’«agitato non mescolato» usato da Ian Fleming per i gusti alcolici del suo James Bond, gu­sti che facevano inorridire So­merset Maugham, per il quale la non fusione delle diverse mo­lecole di gin e di vermouth era un sacrilegio... Resta il fatto che ciò che face­va di un cocktail un cocktail e non una bevanda da happy hour erano proprio quei legni scuri da bar, del tipo classic, la penombra, il buio discreto, il tintinnio dei bicchieri e quello più sordo dei cubetti di ghiac­cio versati nel mixer, i barmen formali, i clienti in giacca e cra­vatta e, nel caso di un pianofor­te e di un pianista, non un solo motivo che avesse meno di qua­­rant’anni, fra Gershwin, Berlin, Porter,insomma.Erano l’effige di un’epoca, come suggerì Li­lian Helmann, in cui bere appa­riva «romantic, even chic», ov­vero il «drinking is fun» di He­mingway, il «civilization begins with distillation» di Faulkner, la «medicinal illusion of gin» di Scott Fitzgerald, lo «smoking, drinking, never sleeping» di Duke Ellington... L’epoca rias­sunta in quei due versi di Au­den: «Potrebbe una tigre/ bere Martini, fumare sigarette/ e du­rare quanto duriamo noi?». Già alla fine degli anni Settan­ta, la decadenza divenne inarre­stabile. Secondo un sondaggio del mensile Forbes , il vino bian­co batteva i coktail nella misura di undici a uno e oggi, che nei bar è vietato persino fumare e va di moda il vino rosso, ormai ti trovi a fianco di trentenni che hanno la vita dei pantaloni al­l’altezza delle caviglie, di qua­rantenni in overdose di pochet­te, di barmen che sino a ieri face­vano i baristi e parlano di calcio con i clienti, di musica techno, di appetizers con cui fai pranzo e cena...Si è chiusa un’epoca in­somma e non c’è anniversario che tenga: quel che ne resta, sparso qui e là in Europa, è qual­che sacerdote dello spirito: Ro­berto Pellegrini al Gritti di Vene­zia, Colin Field al Ritz di Parigi, Tony Micelotta al Dukes di Lon­dra. Prima o poi i barbari som­mergeranno anche loro: per noi adepti di una religione scomparsa sarà comunque un dolce naufragare...