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 2011  marzo 29 Martedì calendario

IL DISTURBATORE DI CONSIGLIO

In Giappone, un Paese che non brilla certo per la sua corporate governance, molte società pagano i disturbatori di assemblee. Inizialmente, si trattava di un vero e proprio ricatto di questi azionisti a danno delle imprese. Le assemblee delle società che non pagavano venivano subissate di quesiti pretestuosi, creando confusione ed imbarazzo. Col tempo, però, le imprese giapponesi scoprirono che traevano un altro vantaggio dal pagare i disturbatori di assemblee: all’occasione potevano usarli per sopraffare gli azionisti con legittimi motivi per protestare, come scoprì a sue spese il finanziere americano T. Boone Pickens quando cercò di far valer i suoi diritti di azionista in un’assemblea giapponese. Questa perniciosa simbiosi tra azionisti di controllo e disturbatori di assemblea esiste anche in Italia.
Il disturbatore di assemblea è funzionale a un azionista di controllo che non vuole rendere conto agli altri soci delle proprie scelte. Tanto più i disturbatori sollevano un polverone, tanto più è difficile distinguere tra cause legittime e pretestuose. Se tutti sono colpevoli, nessuno lo è, e quindi l’azionista di maggioranza può continuare incontrollato.

Purtroppo di recente questa pratica antica sembra aver fatto un salto di livello: dai disturbatori di assemblee siamo passati ai disturbatori di consiglio. Una volta i consigli di amministrazione erano riunioni molto noiose e formali, dove si vidimavano decisioni prese altrove. Questa era una pratica scorretta, sia dal punto di vista giuridico (che attribuisce la responsabilità delle scelte al consiglio), sia dal punto di vista sostanziale (muovendo le decisioni altrove si rischia di prendere decisioni poco informate). Fortunatamente, la pressione per riportare le decisioni in consiglio è aumentata. Grazie al codice di autodisciplina e alle pressioni della Consob, un numero crescente di società si sottopone ad una board review esterna. Queste review permettono ai consiglieri di fare emergere le loro frustrazioni, forzando i presidenti a un comportamento più corretto sia dal punto di vista formale che sostanziale.

Non tutti, però, vedono questo trend con favore, perché rende gli azionisti di controllo maggiormente responsabili (gli inglesi direbbero "accountable"). Il modo più efficace di resistere a questo trend è quello di invocare il pericolo di fuga di notizie. Quando un consiglio lascia trapelare informazioni ai giornali, danneggia l’impresa. Il management ha quindi gioco facile nel centellinare la diffusione di informazioni, per evitare pericolose fughe di notizie. Le fughe di notizie sono funzionali all’azionista di controllo per mantenere il suo potere. Verrebbe quindi la tentazione di pensare che esse siano orchestrate ad arte.

Per quanto logica, questa ipotesi mi era sempre sembrata inverosimile. Di fronte ai recenti fatti, però, è più difficile non crederci. Non si tratta di fughe di notizie, ma di vere e proprie interviste che azionisti appartenenti al gruppo di controllo (di fatto, se non di diritto) rilasciano alla stampa violando il segreto a cui dovrebbero attenersi. Lo ha fatto Tarak Ben Ammar, consigliere di Mediobanca, quando ha rilasciato ai giornali dettagli del consiglio di Generali, a cui non appartiene, ma su cui Mediobanca esercita "un’influenza dominante." Lo ha fatto Diego Della Valle, quando ha attaccato sui giornali il presidente del suo consiglio di amministrazione.

Lo ha fatto Vincent Bolloré, consigliere di Generali e Mediobanca, quando ha rilasciato un’intervista sui dubbi che aveva sul bilancio di Generali. L’aspetto è particolarmente grave perché Bolloré non è un semplice consigliere, ma il vicepresidente della società. Se veramente ha dei dubbi, si dimetta e li riporti alla Consob. Se no taccia. Questa fuga di notizie ha raggiunto livelli senza precedenti quando qualcuno ha fornito all’Espresso accesso ai verbali del consiglio di Generali.

La bagarre mediatica che ne è seguita ha coperto di fango la più prestigiosa società del nostro listino. È solo un errore, o il tassello di una strategia della tensione volta a un colpo di stato societario? In entrambi i casi la Consob dovrebbe intervenire per riportare i consiglieri alla riservatezza ed evitare un’esautorazione dei consigli di amministrazione.