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 2011  marzo 30 Mercoledì calendario

QUOTE ROSA, PER VOCE ARANCIO

Poche settimane fa il Senato ha dato il via libera (203 voti a favore, 14 contrari e 33 astenuti) al ddl sulle quote rosa nei consigli d’amministrazione delle società quotate e a partecipazione pubblica. In pratica, a partire dal 2012 ed entro il 2015, nei cda un quinto dei posti dovrà essere riservato alle donne. Entro il 2018 i posti loro riservati dovranno salire a un terzo del totale.
Che cosa accadrà se le società non si adegueranno alla nuova legge? Sono previste sanzioni: ci sarà una diffida da parte della Consob a reintegrare il cda o i collegi entro quattro mesi; in caso di ulteriore inadempienza scatteranno diffida di tre mesi e sanzioni pecuniarie (da 100mila a un milione di euro per i cda e da 20mila a 200mila per i collegi sindacali). Se le società non si adegueranno entro i sette mesi concessi dalle due diffide, si arriverà addirittura alla decadenza del consiglio d’amministrazione o degli organi di controllo.
In Italia le donne costituiscono il 51,4% della popolazione. Tra i ministri, è donna il 21%. Nel top management delle grandi aziende lo è il 14%. Le amministratrici delegate in società quotate sono il 6% (dati Istat).
Nella fascia d’età compresa tra i 30 e 34 anni le donne laureate sono il 23%, gli uomini il 15%.
Nonostante siano in media più istruite degli uomini, le italiane hanno più difficoltà ad arrivare ai vertici delle aziende (fenomeno chiamato “tetto di cristallo”) e in particolare delle società quotate in Borsa. A rivelarlo è il rapporto di Manageritalia “Donne ai vertici dell’economia italiana”. Nel nostro Paese le dirigenti nel settore privato sono l’11,9% del totale, in Europa sono in media il 33%. In questa classifica l’Italia è all’ultimo posto, preceduta anche da Turchia (22,3%) e Grecia (14,6%). I numeri di altri Paesi: Francia 37,4%, Regno Unito 34,9%, Germania 29,3%. In Italia le regioni più femminilizzate sono Calabria (16,2% le donne dirigenti), Lazio (16%) e Lombardia (13,4%). Tra città e province Catanzaro (26,8%) e Vibo Valentia (21,7%) prevalgono su Roma (16,4%), Palermo (16%) e Milano (14,6%).
Guardando poi ai consigli di amministrazione, le donne nei cda e negli organi di controllo delle 248 società quotate alla Borsa hanno un peso del 4,8%. In particolare quattro donne (3,7%) su 107 ricoprono la carica di presidente, cinque (3,8%) su 131 sono amministratore delegato e due (4%) su 50 direttore generale. Considerando sempre le società quotate, il confronto europeo è impietoso: 3,2% rispetto a una media dell’Europa a 27 dell’11,4%, con le vette superiori al 20% di Finlandia e Svezia e l’inarrivabile 42% della Norvegia.
Ben 145 aziende italiane quotate hanno cda interamente maschili. Nei giganti pubblici (per esempio Eni ed Enel) su nove posti di consigliere d’amministrazione la presenza femminile è pari a zero. Stessa cosa in Telecom (15 posti in cda, 15 uomini), Fiat (15 uomini su 15 nella spa e 9 su 9 in Fiat Industrial), Tenaris (10 su 10). Nessuna donna in Finmeccanica, A2A, Acea, Immsi, Edison, Mediolanum. Saipem e Snam Rete Gas concedono loro un posto su nove.
Dopo l’entrata in vigore della legge, secondo i calcoli della Fondazione Bellisario, a oltre 3mila donne spetterà il diritto di entrare nei consigli di amministrazione.
Da un’indagine condotta da Federmanager Minerva, in collaborazione con Ermeneia su un campione di circa 1.000 dirigenti, emerge che in Italia le aree aziendali nelle quali operano le donne dirigenti sono amministrazione, controllo e finanza (39,6% del campione); commerciale, marketing, customer service (38,1%); risorse umane (32,7%); fiscale e legale (20,2%); comunicazione (20,6%) e direzione generale (14,7%).
Alcuni paesi in Europa sono molto avanti: la Norvegia nel 2003 ha fissato per prima al 40% la quota di donne nei consigli d’amministrazione, seguita nel 2007 dalla Spagna e poi dall’Islanda, che lo scorso anno ha introdotto le quote per genere. In gennaio la Francia ha approvato una legge che entro il 2017 porterà al 40% le donne dei cda nelle maggiori società quotate in Borsa. Nel Regno Unito non c’è un obbligo ma la raccomandazione di avere il 20% di donne consiglieri nelle società Ftse 350. In Germania e Austria il dibattito sulle quote rosa è ancora aperto.
A Malta solo il 2% dei posti nei cda è occupato da donne.
La reale efficacia delle quote rosa fa discutere. In Norvegia la percentuale di donne negli organi di vigilanza è passata dal 25% nel 2004 al 42% nel 2009. Però c’è anche l’esempio della Spagna, dove la stessa percentuale è progredita dal 4% nel 2006 a solo il 10% nel 2010.
In alcuni Paesi asiatici le cose funzionano meglio che in Occidente. Una ricerca della Grant Thornton International (società di consulenza internazionale) dice che considerando tutte le posizioni dirigenziali (“senior manager”) le donne occupano il 38% delle poltrone, in forte crescita rispetto al 35% del 2009. A livello mondiale, le sorprese arrivano dall’Oriente: la Tailandia, con il 45%, detiene il primato mondiale di presenza di donne nel senior management. Seguono nella classifica la Georgia (40%), la Russia (35%), Hong Kong e le Filippine (35%). Tra l’altro, nel 2010, proprio le Filippine hanno registrato la crescita record di +7,3% nell’economia.
I Paesi asiatici fanno meglio perfino degli Stati Uniti, dove non esistono le quote rosa. La presenza femminile nei board delle società Usa della classifica Fortune è ferma al 15,2%. Non va meglio se si analizzano le percentuali della presenza femminile nel top management (13,5%) e quella delle donne fra i manager con le remunerazioni più alte (6,3%). Senza contare poi che il 30% delle società prese in esame non ha neppure un top manager donna.
Più donne ai vertici delle imprese significano maggiori utili. Scrivono Viviane Reding (vicepresidente della Commissione europea) e Lella Golfo (deputato Pdl) sul Sole-24 Ore: «Una ricerca condotta da Goldman Sachs mostra che, colmando il divario di genere, il Pil nella zona euro potrebbe arrivare fino al 13%. Sul versante delle imprese la situazione è altrettanto evidente. Da un’analisi di McKinsey risulta che l’utile operativo delle imprese con più donne al vertice è del 56% maggiore rispetto a quello delle imprese dominate da uomini. È una questione di profitto. Rispetto ai consigli composti da soli uomini, quelli con più donne conseguono risultati migliori in termini di audit, gestione e controllo dei rischi. In famiglia sono le donne a prendere l’80% delle decisioni di acquisto, e non stiamo parlando del pane o del detersivo: provate a chiedere chi ha scelto l’ultimo computer!».
Secondo una ricerca di Cerved sulle donne manager, tra il 2001 e il 2007 le società con capi donne hanno incrementato i ricavi a un ritmo medio annuo superiore rispetto a quelle guidate da uomini in ogni fascia di fatturato considerata (dell’8,8% contro l’8,6% tra quelle con ricavi superiori ai 200 milioni, del 7,7% contro il 6,5% tra quelle con ricavi tra i 50 e i 200 milioni, del 3,6% contro il 2,7% tra quelle con ricavi compresi tra 10 e 50 milioni). Le imprese con un capo donna nel 2007 hanno anche evidenziato una migliore capacità di generare profitti: in media, le società femminili realizzano 6,9 euro di margini operativi lordi ogni 100 euro di fatturato, contro i 6,5 euro delle aziende maschili. Maggiore anche la quota d’imprese femminili in grado di chiudere l’esercizio in utile: di 3,5 punti per quelle con ricavi oltre i 200 milioni (86,5% contro 83%), di 3,3 per quelle tra 50 e 200 milioni (85,2% contro 81,9%), di 0,3 per quelle con ricavi tra 10 e 50 milioni.
Le donne controllano 14 mila miliardi di dollari di capitali, nei prossimi dieci anni la quota salirà a 22 mila miliardi (dati del Sole 24 Ore).
Altro dato sulle donne: negli ultimi quattro anni le imprese italiane gestite da donne sono cresciute del 9% a fronte del 5,7% di quelle maschili.
Le disparità tra uomini e donne non sono solo nel settore privato, ma anche in quello pubblico. Tra gli insegnanti, l’81% sono donne ma le dirigenti scolastiche sono meno del 40%. Nella pubblica amministrazione, dove le donne sono circa il 60%, le dirigenti di alto grado si aggirano intorno al 20%. Sono poche, inoltre, le donne in Parlamento. Dalla ricerca “Le donne nelle istituzioni rappresentative dell’Italia repubblicana”, presentata alla Camera, emerge che: 21 donne facevano parte della Costituente nel 1946, nel 1948 le senatrici erano l’1,7% e il 6,19 le deputate; nel 2008 18,32% le senatrici e 20,95% le deputate. Stessa situazione nella politica amministrativa: 847 donne sindaco su oltre 8mila comuni; non va certo meglio per quanto riguarda la posizione di vicesindaco, ricoperta da 885 donne mentre i colleghi sono 4.953. Poche anche in giunta: 5.123 le donne, contro 21.089 assessori. Inoltre sono solo 13 le presidenti nelle 110 province, appena 2 governatrici tra 20 presidenti di regione.