CHRISTOPHER ISHERWOOD , la Repubblica 27/3/2011, 27 marzo 2011
CHRISTOPHER ISHERWOOD DIARIO DI UN UOMO SOLO - 4
luglio 1961
Non sono felice. Sono depresso, profondamente. Odio questa città e il suo clima. I rapporti con Don vanno male per la maggior parte del tempo. Lui soffre la mia presenza e in realtà vorrebbe che me ne andassi, ma sa che gli sarò d´aiuto per la mostra. È felice solo quando dipinge o disegna - sta sperimentando una tecnica pittorica interessantissima in bianco e nero. Non sono esattamente dispiaciuto per me; piuttosto stanco di me. Hemingway è morto. È probabile che lo abbia fatto intenzionalmente, stanco di tutto all´improvviso, anche della sua leggenda. Non c´è da stupirsi. Oggi capisco la melanconia senile. Ma non mi ci abbandonerò, credo.
Non abbandonerò Don anche se magari tornerò in California e lo aspetterò. So cosa devo fare: andare avanti con il Ramakrishna e dedicarmi alle umili occupazioni quotidiane. Ormai sono di mezz´età e lento. Odio quando mi mettono fretta. Ha chiamato la Bbc chiedendomi se potevo dire qualcosa su Hemingway. No, ho risposto.
26 agosto 1962
La mia aspettativa di vita oggi è di diciassette anni. Ma sono ben consapevole che potrei morire da un momento all´altro. Quella aggressiva ragazza nera che ho conosciuto alla festa a Natale a New York ha detto che sarei morto dopo aver scritto un altro libro (di grande successo), un anno o due dopo, credo abbia detto. Ho paura della morte? Sì e no. Ho il terrore di perdere il controllo, sapendo di essere nella fase terminale della malattia, sapendo che i medici e le infermiere mi hanno in loro potere, nel loro mondo crudele di antidolorifici insufficienti. Ma ho anche fede. Credo che in qualche modo avrò un sostegno. Se mai esiste la vita dopo la morte. E per me è ancora un po´ un se. Non grande però.
Non mi piace come invecchio. Ho il viso imbruttito dalla tensione, dal rancore e dalla libidine. Non è affatto bello. Vecchio e brutto. E ho la pancetta nonostante tutta la ginnastica. Devo dominare il mio rancore in qualche modo, mi logora.
Odio Don? Solo la parte egoista di me lo odia perché rompe l´incanto. Quando riesco ad andare oltre questo mi fa davvero pena, perché sta soffrendo terribilmente. Ancora non so se vuole lasciarmi sul serio o che altro. E non credo lo sappia. Ieri sera era ubriaco e si è messo a piangere, nell´atelier, così forte che potevo sentirlo da casa. Sono andato da lui e mi ha detto di lasciarlo solo, che gli andava di piangere. Ho avuto l´impressione che fosse sul punto di crollare. Ma poi, stamattina, si è presentato con dei regali di compleanno con sopra una dedica giocosa - due camicie, calzini bianchi, un cinturino per l´orologio e un bellissimo cavallo in miniatura, giapponese, bianco con finimenti arancio, verdi e oro.
10 settembre
Con Don va male ma almeno abbiamo avuto un chiarimento l´altro giorno. Dovrei andar via, ovviamente, per qualche mese e lasciarlo qui a ritrovare la bussola. Non farlo significa costringere lui ad andar via, ed è sbagliato perché è lui che non si sente davvero a suo agio in questa casa e ora che ha il suo atelier dovrebbe essere libero di goderselo.
E poi perché non vado via? Perché mi crea trambusto e non voglio lasciare la mia casa e soprattutto i miei libri. Voglio stare qui e andare avanti col mio lavoro, ai miei ritmi. Posso lasciarlo solo ora, è chiaro, con molta più facilità di un tempo; abbiamo più spazi privati. Ma non abbastanza. La nostra vita insieme è tutta sbagliata e non so se si possa tornare indietro. [...]
18 maggio 1963
Se devo scrivere il diario in questo periodo bisogna che resti molto aderente ai fatti. Altrimenti sarà un nauseante raccontare me stesso. Sono tornato a casa in macchina il quindici perché Don ha detto che in fin dei conti non vuole venire a San Francisco; perché non abbiamo la casa dei Wells-Hamilton. [...]
Ieri ho fatto una corsa in centro da Kazanjian e gli ho comprato un anello con uno zaffiro australiano blu scuro. Questa mattina a colazione è scoppiato in lacrime dicendo che non poteva accettarlo. Il nostro per lui è un rapporto impossibile. Io sono troppo possessivo. Non regge l´idea di avermi attorno per altri dieci anni o più a consumare tutta la sua vita. Gli ho detto che sono assolutamente d´accordo. Se non funziona bisogna dire basta. [...]
2 agosto
Gavin ha letto il romanzo e pare apprezzarlo moltissimo. Ma lo preoccupa l´identità di George. Ha la sensazione che il modo di parlare di George e l´atteggiamento che ha nei confronti del suo lavoro del college siano talmente miei personali che non lo si accetta come un personaggio a se stante. Può ben essere. Ma non sono sicuro che si possa fare qualcosa al riguardo. Forse sarà meglio pubblicare il romanzo riconoscendone i limiti piuttosto che cercare di creare un George fittizio, del tutto convincente nella sua insulsaggine, finendo però per perdere tutta la follia del personaggio.
A letto lunedì sera Don è rimasto a lungo in silenzio. Pensavo si fosse addormentato. Poi all´improvviso mi ha chiesto: «Che ne diresti di intitolarlo Un uomo solo?». Ho capito all´istante e da allora non ho mai avuto dubbi al riguardo, ossia che è il titolo assolutamente ideale per il romanzo e che userò quello a meno che non me lo rubino. [...]
30 novembre
Riluttanza a scrivere sul ventidue, il Black Friday, ma dovrei. Per ricordare. Don ed io eravamo ancora a letto, alle undici circa, perché la sera prima avevamo organizzato una cena d´addio per Cecil Beaton (in partenza per New York e, da lì, per l´Inghilterra), c´erano anche Paul Wonner e Bill [Brown] e Jack Larson e Jim [Bridges], e avevamo fatto tardi. Telefonò Henry (ancora adesso ricordo che era lui - pare impossessarsi di tutto - intrufolandosi con la sua insensibilità teutonica) per dire che avevano sparato al presidente. Accendemmo la vecchia radio di Harry Brown, che altrimenti non usavamo mai, e ascoltammo dal letto le notizie che si succedevano e che ben presto confermarono la morte.
Quando morì Roosevelt ero triste, ma mi dissi: bene, ci daranno un giorno libero. Stavolta era diverso. Solo orrore e disgusto. Quando ci penso mi torna in mente un soggiorno a Calcutta, quando nell´hotel cosiddetto di lusso da sotto il gabinetto iniziò a trasudare una fanghiglia nera. Si aveva la sensazione - per quanto dirlo possa suonare sensazionalistico - che fosse un´opera del male di cui la nazione intera si era macchiata, tutti noi con il nostro odio.
Per Aldous [Huxley] fu il contrario. Presumo in parte perché non era colpa nostra. Morì senza soffrire. Alla fine chiese l´acido lisergico e gli fu somministrato. Era lucidissimo. Il giorno prima aveva terminato e rivisto un articolo su Shakespeare e la religione che a detta di Laura è molto valido.
La domenica successiva Laura e Rose, la sorella di Maria, e la madre di Maria e il figlio di Rose, Siggy e Mattew Huxley e Peggy Kiskadden e altri, me incluso, andammo a fare una passeggiata verso la riserva - invece di celebrare il funerale. Fu un´idea di Matthew. Peggy ed io fummo educati ma non parlammo quasi [...].
Continuo a pensare: i libri ormai sono finiti. Forse morirò presto, come ha profetizzato quella ragazza di colore a New York. Se così non sarà, aspettiamo comunque che questo orrore indiano sia finito e poi vediamo cosa porta. La vita va avanti o si ferma. Se va avanti, le cose cambieranno per me.
Traduzione Emilia Benghi
© 2010 Don Bachardy
(Ha collaborato Gabriele Pantucci)