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 2011  marzo 27 Domenica calendario

UNA CITTA’ PER FUGGIRE DAL VESUVIO

Si sa, anche se non si sa quando e con quale intensità, che un giorno il Vesuvio esploderà. Date e statistiche lo confermano, e anche i napoletani che vivono alle falde del Vesuvio lo sanno benissimo. Come si spiega allora che non solo il piano per lo sgombero delle case più esposte in «zona rossa» è fallito, ma anche che si progetta di costruire nuove case arrampicandosi lungo i fianchi dello «sterminatore» ? È un buon quiz questo per spiegare il carattere dei napoletani. Fatalismo? Incoscienza? Ottimismo? Fiducia in San Gennaro? Oppure la risposta è quella dello «scarrafone» quando lo avvertono che piove inchiostro: «Che m’importa, tanto più nero di come sono non posso diventare?» . Certo che non è facile capire. Forse è la doppia natura del Giano Napoletano, il dio dalla doppia faccia, bene-e-male, buono e-cattivo, felice-infelice, insomma il perenne ossimoro, la perenne coesistenza di due principi opposti e complementari. E dunque nel caso del Vesuvio i napoletani sanno che esploderà ma nello stesso tempo non vogliono saperlo, fino al punto di costruire una casa là dove non si dovrebbe perché tutto quello che potrebbe accadere finché non accade non esiste. Ma questo discorso si può fare se si parla del carattere dei napoletani e del loro inconscio bifrontalismo, non si può più fare se riguarda le istituzioni, che dovrebbero essere sempre consapevoli e responsabili, e dunque prevedere, prevenire, e prepararsi ad affrontare una possibile catastrofe naturale.
Con tutti i guai reali che oggi ci sono, si dirà, vogliamo aggiungere anche il pensiero di quelli possibili? Di una catastrofe, naturale, come se non bastasse già la catastrofe quotidiana in cui viviamo? È una reazione comprensibile, visto le cose come vanno oggi a Napoli e in tutto il Sud, e vista quell’altra catastrofe umanitaria che agita il Nordafrica mediterraneo, gravida di conseguenze per noi. Ma nonostante ciò non bisogna escludere la malaugurata ipotesi che se un brutto giorno il Vesuvio scoppiasse, catastrofe sarebbe per Napoli. Ci sarebbe solo da misurare l’entità della possibile catastrofe, ma catastrofe sarebbe, naturale e umanitaria. E allora perché non immaginare quello che potrebbe accadere, per limitarne il danno?
Immaginiamo innanzitutto che una popolazione di 600.000 abitanti — tanti sconsideratamente si affollano sotto il Vesuvio — all’improvviso svegliata da un boato debba in fretta e furia e prima che sia troppo tardi, fuggire dalla rappresaglia di una nuvola incandescente che si abbatterà sulle case: quale via di fuga sarebbe possibile? È questa la prima previsione su cui da tempo si discute. Una cosa è sicura: Per 600.000 persone in fuga le strade che ci sono non bastano. Soluzioni alternative, come una fuga via mare, anche parziale, appaiono impraticabili.
La seconda previsione da fare riguarda i tempi. Non solo i tempi della fuga, che non possono essere ristretti ma dovrebbero essere ragionevolmente distribuiti per evitare pericolosi superaffollamenti (e già tante volte si è visto che quando questo accade è tragedia); ma anche i tempi in cui— con gli strumenti di cui è dotato l’Osservatorio Vesuviano ed altri forniti dalla scienza— è possibile stabilire in anticipo quando l’eruzione avverrà. Ventiquattro ore? Una settimana? Quindici giorni? E bisogna anche prevedere il caso in cui gli strumenti diano l’allarme, e l’allarme si riveli un falso allarme, con l’effetto di «al lupo, al lupo» che è pieno di incognite, perché se il lupo poi arrivasse davvero più nessuno ci crederebbe. Nell’editoriale del «Corriere» (del 12 marzo) a firma Massimo Gaggi, leggo che i giapponesi provati dal terremoto sono «un popolo che reagisce con compostezza a una tragedia immane. Gente che si rimbocca le maniche applicando una lezione mandata a memoria in decenni di addestramento» . Di questa «lezione mandata a memoria» non v’è nessuna traccia tra la popolazione vesuviana, ed è bene che si cominci a impartirla.
Non basta. Ammesso che la fuga di 600.000 persone avvenga ordinatamente e si svolga con successo nei tempi previsti (cosa del tutto improbabile), dove andranno a finire i 600.000 fuggiaschi? Per questo sono stati previsti gemellaggi con molte città italiane anche del Centro e del Nord (con quali garanzie ancora non si sa bene, perché è ancora tutto ipotetico). Ma per quanto tempo sarà possibile mantenere il popolo vesuviano in questa situazione di «ospite» senza più un retroterra, una casa, un’attività, un lavoro, eccetera? Qualcosa di simile si è visto anche all’Aquila dopo il terremoto.
Tutte queste domande che mi sto facendo da dilettante, per così dire, e non da esperto della questione, sono invece l’ossessione del professor Girolamo Vajatica, napoletano, che da anni sta sbattendo la testa con questo problema, e nel tentativo di destare le sonnecchianti «autorità competenti» — e dunque la politica — per far loro prendere le iniziative più appropriate (e soprattutto tempestive e concrete) per affrontare il rischio vulcanico che incombe su Napoli. Ma intanto quelle stesse «autorità competenti» cosa fanno? Hanno concesso, pare, il permesso di costruire non lontano dal Vesuvio l’ospedale più grande del Meridione (prossimo ad essere ultimato), una centrale termo-elettrica a gas e un costruendo inceneritore. Questo apprendo da un documento a me inviato dall’Associazione Progetto Vesuvio. Mi piacerebbe avere una smentita, o per lo meno una spiegazione.
In questo contesto si affaccia l’ardita (utopistica?) proposta, lanciata dal professor Vajatica e accolta dall’Associazione Progetto Vesuvio, di costruire una città nuova (da creare di sana pianta, come Latina, Aprilia, l’Eur) e da situare in un’area non lontana dai 18 comuni vesuviani evacuati, una zona del casertano delimitata al Nord dal Volturno e al Sud dai Regi Lagni. Si può immaginare una nuova città, capace di ospitare il numeroso popolo vesuviano, in una zona già urbanisticamente superaffollata? Io francamente non lo so. E si può pensare che un progetto così vasto e un affare così colossale sfugga alla Camorra sempre in agguato dove corre il danaro? A questi dubbi e a queste domande dovrebbe rispondere l’Associazione Progetto Vesuvio, e la discussione in proposito dovrebbe essere aperta nelle sedi più adatte, cioè quelle che possono veramente prendere una decisione e mandarla avanti. Sedi che non sono state ancora individuate.
Infine vorrei segnalare a chi volesse approfondire l’argomento il volume Il rischio Vesuvio (Guida editore, Napoli) di Antonio Nazzaro che racconta la storia del vulcano con dovizia di informazioni, e nelle ultime pagine affronta il tema del «rischio» qui trattato.
Raffaele La Capria