Massimo Mucchetti, Corriere della Sera 27/03/2011, 27 marzo 2011
L’ITALIA E PARMALAT. RISPARMIO SENZA CAPITALI
Un fatto pesante. Parmalat, public company italiana, viene assaltata aggirando l’obbligo dell’Opa da fondi speculativi esteri che si uniscono in un patto di sindacato old style per consegnarne il controllo di fatto a un’impresa familiare francese, che non pubblica i bilanci e non è quotata. È il vecchio che mangia il nuovo. Con in più il fiero sospetto che il vecchio catturi il nuovo per usarne la cassa già accumulata e quella che verrà a riduzione dei propri debiti. Eppure, i nuovisti considerano vecchia la Parmalat, benedicono l’opaca Lactalis, bollano come nazionaliste le contromosse di Intesa Sanpaolo anziché contestarne, se del caso, l’economicità magari sulla scorta dell’esperienza Telecom. Si contestano, inoltre, come anti mercato le dilazioni che il governo cerca di provocare per dare il tempo di organizzare un’alternativa quasi che il mercato del controllo sia una religione da adottare anche in un Paese solo. L’opinione. Di questi tempi, Diego Della Valle va sostenendo che, in una società per azioni, chi investe soldi suoi ha più diritto di parlare di chi partecipa in rappresentanza di altri. Della Valle coglie un rischio ben lumeggiato da Luigi Einaudi e più recentemente da Lucien Bebchuk e, sul Corriere, da Salvatore Bragantini: chi comanda con i soldi degli altri è più tentato di estrarre per sé i benefici del controllo, monetari e di potere. Personalmente, credo che quest’opinione valga particolarmente contro chi siede in vetta alle piramidi societarie e da lì comanda il vasto mondo di sotto. Estenderla, invece, agli investitori collettivi, come fanno diversi esponenti del «giornalismo critico» che si chiedono, per esempio, a nome di chi parlino gli uomini delle fondazioni bancarie, rischia di non riconoscere il ruolo degli investitori collettivi: fondi pensione, sanitari, fondi comuni, assicurazioni, private equity, hedge fund, banche dove la selezione dei dirigenti e la gestione non sono certo più trasparenti che nelle fondazioni bancarie, e certo non si basano sul numero di titoli personalmente posseduti. Il fatto è che proprio questi soggetti anonimi (cui dovremmo aggiungere i fondi sovrani dei quali poco si sa tranne il padrone) sono oggi i maggiori fornitori di capitale al sistema economico. E hanno perciò pieni diritti. Il caso Parmalat rivela come l’Italia fatichi a reagire su un affare di pochi miliardi. La patria del risparmio si scopre povera di capitali di rischio. Un bel paradosso. Il liberismo ideologico accoppiato al personalismo rischia di consolidarlo. Abbiamo smontato il binomio Mediobanca-capitalismo di Stato al momento di aprirci ai mercati finanziari internazionali senza sostituirlo con nulla, anzi lasciando leggi che favoriscono i debiti rispetto alle azioni e fuggendo dalla politica industriale intelligente che costa meno dei certi sussidi. Anziché credere che l’erba del vicino sia sempre più verde, negare i diritti degli investitori collettivi o farsi bastare il protezionismo dell’ultima ora, sarebbe meglio studiare come avvicinare il risparmio al rischio imprenditoriale senza più deleghe in bianco a un mercato, la Borsa, che si è rivelato inefficiente per lo sviluppo.
Massimo Mucchetti