Anna Maria Brogi, Avvenire 27/3/2011, 27 marzo 2011
Sudan, l’Africa delle contraddizioni - Avvolta in un leggero scialle beige, la ragazza spagnola sembra rapita dallo spettacolo
Sudan, l’Africa delle contraddizioni - Avvolta in un leggero scialle beige, la ragazza spagnola sembra rapita dallo spettacolo. Nel cerchio disegnato dalla folla, i dervisci avanzano, oscillano, ruotano, tra canti ipnotici e ritmi di tamburi. Khartum, cimitero di Omdurman, venerdì pomeriggio. Come ogni settimana, i dervisci della capitale si sono riuniti a pregare nel mausoleo del loro fondatore. Al tramonto escono in processione, le tuniche candide, gli stendardi verdissimi. Non sono molti i bianchi in questo tripudio di squillante islam e pelle ebano. «Turisti? – sgrana gli occhi la ragazza – In Spagna non rilasciano visti per turismo», commenta male informata. «Siamo venute per un mese con un progetto del nostro Ministero – spiega indicando tre amiche – ma ci piacerebbe visitare il Paese». Le piramidi di Meroe, i templi di Naga, i villaggi lungo il Nilo… Dietro lo scialle che sembra un burqa – tra donne in vesti coloratissime, gli occhi e le labbra scuri di henné – rivela la sete di un mondo creduto inconoscibile. Benvenuti in Sudan, il “paese degli uomini neri” – questo significa il nome imposto dagli arabi – ma anche dei fraintendimenti e delle contraddizioni. Esistono tre Sudan, e già è un paradosso dirlo. Perché dal 9 luglio ne esisteranno due separati dalla frontiera, in seguito alla secessione del Sudan del Sud, con capitale Juba, decisa dal sì plebiscitario nel referendum tenutosi nella regione dal 9 al 15 gennaio. C’è il Sud cristiano e animista, foreste e fango, tribale e traboccante di petrolio, estratto soprattutto da compagnie cinesi. E c’è l’Ovest, il Darfur, macerato da carestie e violenze. C’è infine il Nord, con la capitale Khartum – in realtà tre città, separate dal Nilo Bianco e dal Nilo Azzurro che qui confluiscono –, arabizzato e islamico, che corrisponde all’Alta Nubia degli antichi egizi e dove la modernità porta la firma cinese: strade, ponti. E oleodotti. Perché, se il Sud ha i giacimenti, le infrastrutture per trasportare l’oro nero attraversano il Nord dirette a Port Sudan, sul Mar Rosso. Due Stati, tre regioni distinte. E distanti, in quello che era il Paese più vasto dell’Africa: due milioni e mezzo di chilometri quadrati, quasi otto volte l’Italia. Con la secessione del Sud si staccheranno 700mila chilometri quadrati, così il primato passerà all’Algeria seguita dalla Repubblica democratica del Congo. Non gode di buona fama, il Sudan, governato da quel Bashir contro il quale la Corte penale internazionale ha emesso nel 2009 un mandato d’arresto per crimini di guerra e contro l’umanità. Eppure attraversare il Nord è una sorpresa, umana e culturale. È l’altro Sudan, lontano dai presidi umanitari e religiosi e dalle aree a rischio. Tra Khartum e la frontiera egiziana, dove nei siti archeologici tutelati dall’Unesco lavorano missioni di studio da tutta Europa, vive una popolazione povera ma dignitosa, pronta a spalancare le porte allo straniero. Chi mastica l’inglese non ti molla più. Al mercato di Karima un vecchio richiama l’attenzione: siete russi? Leningrado (la chiama così) è la sua parte di mondo conosciuta: vi andò a studiare meccanica, quando il Sudan gravitava nell’orbita sovietica. Faceva freddo, vero? Mimiamo il tremito. Ride e mima la neve. Un fruttivendolo si mostra interessato al costo delle angurie: quanto in Italia? Un dollaro, di più? Il prezzo è quasi identico, e qui la carne (poca) si vende a 25 euro al chilo, ma gli stipendi (per chi ce l’ha) si aggirano sui 300 euro mensili. Nella via degli orefici – bottegucce di oro rosso sotto un portico che costeggia lo sterrato – tre uomini sorseggiano l’immancabile tè. Il più anziano è un ex professore d’inglese, dice che oggi l’insegnamento è trascurato, che il governo non fa abbastanza. Cosa cambierà con la separazione? Si rabbuia. Quelli del Sud non sono organizzati per governarsi da soli, ma vanno capiti, c’è stata discriminazione. Un orefice esce dalla bottega, vorrebbe offrirci il pranzo. È il Sudan a braccia aperte, lo stesso che ci accoglie nel villaggio nubiano di Mulwadi, invaso dalla sabbia, con la scuola dal cortile enorme, dove un’insegnante attinge acqua da un otre di terracotta, al fresco sotto una tettoia. Bambine e bambini si accalcano e fuggono, curiosi e ritrosi, mentre gli insegnanti ci offrono di spartire l’umile pasto consistente in pane non lievitato e full , fave stufate, il piatto nazionale dei poveri. Sul tavolo della preside, oltre al pranzo comune, solo una distesa di quaderni. Nelle aule cartine geografiche disegnate a mano appese su sacchi da granaglie. Ci sarebbe bisogno, spiegano, di pennarelli e cartoncino. In una classe proviamo a raccontare dov’è l’Italia, l’insegnante d’inglese traduce. A noi chiede: c’è il mare? E annuisce, come chi non comprende. Comincia la lezione. Con la destra impugna il gesso e scrive «bus» e «pencil» sulla lavagna, con la sinistra continua a stringere in braccio il figlioletto di due anni. Una quarantina di scolari – Goooodmooorniiiing- teeeaaacher – ripete in coro la lezione. È il Sudan dei kafir , i “custodi” dei siti archeologici, che si materializzano dalle sabbie del deserto, dove basta un fuoristrada in lontananza per far scattare un tacito, efficace, passaparola. La tunica impeccabile, intascano la mancia come fosse lo stipendio e porgono il libro delle firme. È il Sudan del pugnale, simbolo d’onore, che gli uomini portano al fianco, invisibile. Davanti all’angusto emporio che ci accoglie per una sosta forzata – sullo scaffale dentifrici, medicinali e biscotti, sotto il banco bibite fresche – solo uomini e ragazzi. Ci sediamo, beviamo, gustiamo il ronzio del condizionatore. Finisce che si trova alla televisione una partita di calcio italiano e che si appendono batterie e telefonini alle prese di un impianto volante. Avventori importuni? Un cliente consegna allo straniero il suo pugnale. Toh, scosta le mani dal petto come a respingere, è tuo. Al momento di ripartire si vuole ridare l’oggetto o acquistarlo. Impossibile: è un dono. Sorrisi e mano destra sul cuore, in ossequioso saluto. Ma il più interessante dei dialoghi muti avviene con Abu, l’autista giovane. Trent’anni, laureato in economia e due sorelle da mantenere agli studi. Pochissimo inglese, la cautela dell’ultimo arrivato e l’orgoglio di chi non vuol sbagliare. Capita che a una domanda risponda l’indomani. Una volta cita uno scrittore sudanese, famoso in tutta l’Africa. Lo deludo. Un’altra volta chiede se conosco Manute Bol, gigante sudanese del basket americano. S’illumina. Alla fine, con quel suo sguardo mite, tira fuori la domanda che covava da una settimana: ma tu cosa pensi del mio Paese?