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 2011  marzo 27 Domenica calendario

PETROLIO E GUERRA, IL GRANDE GIOCO

In Libia economia vuol dire petrolio. I cal­coli del Fondo monetario internaziona­le dicono che l’attività di estrazione, tra­sporto e vendita di greggio e gas naturale va­le il 92% del prodotto interno lordo libico. Al­la fine dello scontro in corso nel Paese, che con 46,4 miliardi di barili di oro nero e 55mi­la miliardi di metri cubi di gas naturale ha le riserve di idrocarburi più vaste dell’Africa, chi avrà preso il controllo dei giacimenti e dei terminal dove il greggio viene caricato sulle petroliere delle multinazionali avrà l’eco­nomia libica nelle proprie mani.
L’80% del petrolio libico si trova nei dintor­ni del Bacino di Sirte, un’area di 230mila me­tri quadrati che dal Golfo di Sirte scende a Sud fino al deserto. È lì che nel 1961 i bri­tannici della British Petroleum assieme ai texani della Bunker Hunt hanno scoperto il giacimento Sarir, con 12 miliardi di barili il più grande dell’intera Africa. Ed è in quell’a­rea che nei decenni successivi si è concen­trata con più determinazione l’attività delle multinazionali del petrolio, sempre a brac­cetto con la National Oil Company, la com­pagnia petrolifera statale che gestisce le con­cessioni, partecipa all’attività di estrazione, prende una parte dei profitti. Nel bacino di Sirte sono stati individuati 23 ’grandi giacimenti’ e sedici ’giacimenti gi­ganti’ dai quali arrivano più o meno due ter­zi degli 1,6 milioni di barili che la Libia e­sporta ogni giorno. L’altro terzo proviene dal­l’ovest, dove vi sono il bacino del Murzuq, quello del Ghadamis e quello subacqueo al largo di Tripoli. Gli oleodotti (molti realizza­te da aziende italiane) portano il petrolio dei giacimenti dell’ovest fino al porto di Zawia, dove fino a gennaio si caricavano sulle navi dirette in Europa 200mila barili al giorno. Il petrolio dell’est ha invece cinque terminal di riferimento, dai quali complessivamente passava circa un milione di barili al giorno all’inizio dell’anno.
«Penso ci siano buone possibilità che la cri­si si risolva con la divisione della Libia in due parti, perché anche a livello di popolazione l’impressione è che la Tripolitania sia rima­sta con il rais, mentre la Cirenaica è com­patta con i ribelli», dice Arturo Varvelli, ri­cercatore dell’Ispi esperto delle relazioni i­talo- libiche. In una Libia divisa ci sarà da spartire tra i ribelli e Gheddafi anche il pe­trolio. «Se la situazione fosse congelata alle condizioni attuali – continua Varvelli –, Gheddafi ne uscirebbe meglio degli avver­sari: al momento ha il controllo dei giaci­menti dell’Ovest, di gran parte di quelli del­­l’Est, di tre dei quattro terminal principali. Ai ribelli restano Zueitina e Tobruk». Quan­do il Paese troverà un nuovo ordine, le com­pagnie petrolifere che hanno ottenuto con­cessioni dal governo del rais si troveranno a doversi confrontare con nuovi interlocuto­ri. Anche l’italiana Eni, che con Tripoli ave­va da anni un rapporto privilegiato.
«Per le industrie del petrolio non sarà una ri­voluzione improvvisa – avverte il ricercato­re –, i contratti petroliferi, che durano de­cenni, non si annullano da un giorno all’al­tro. Anche quando è arrivato Gheddafi le concessioni non sono state rimesse in gio­co. L’ipotesi di chi dice ’adesso i ribelli ci cacciano’ è surreale». La stessa macchina petrolifera di una nazione non si presta a stravolgimenti improvvisi, perché gestirla ri­chiede esperienza e competenze che pochi hanno, tanto più in una nazione come la Li­bia, dove la classe dirigente è davvero ridot­tissima.
Molto dipenderà, ad esempio, dalla fazione di appartenenza che sceglierà Choukri Gha­nem, il presidente della Noc, l’uomo che mantiene il controllo operativo del petrolio libico. Però è ovvio che tra le nazioni della coalizione chi si sarà di­mostrato ’più amico’ di Gheddafi o dei rivoltosi potrà raccogliere i frutti delle sue scelte. «I vecchi contratti re­steranno, è sempre successo così – prevede Varvelli –. Ma le concessio­ni sulle aree an­cora inesplorate potranno essere accordate sulla base delle nuo­ve simpatie. E le stime dicono che in Libica c’è ancora molto petrolio che an­cora non è stato scoperto».
Se si guarda al conflitto libico attraverso le lenti della guerra per il petrolio, allora an­che l’interventismo del Regno Unito e della Francia ha un aspetto meno solidale e mo­tivazioni più comprensibili, così come si spiegano la maggior cautela dell’Italia e tut­te le perplessità della Germania (che con Wintershall è il secondo produttore di greg­gio nella terra di Gheddafi). Parigi non ha certo un ruolo da protagonista nell’industria petrolifera libica. Londra nemmeno («e non dimentichiamoci – fa presente Varvelli – che, tra le carte pubblicate da Wikileaks, una ri­velava che gli inglesi nel 2009 avevano con­cesso a Gheddafi la li­berazione dell’atten­tatore di Lockerbie per evitare problemi alle attività in Libia di British Petroleum»). Chi non ha nulla da guadagnarci (in ter­mini petroliferi) è l’I­talia, che in Libia a­veva trovato il suo miglior fornitore di petrolio e alla fine dei giochi rischia di ritrovarsi con un Gheddafi «screditato a livello internazionale e pieno di odio contro di noi» da una parte e dall’altra una Cirenaica «storicamente terra dell’anti­colonialismo libico, con una popolazione che ancora ci detesta».