Fabrizio Galimberti, Luca Paolazzi, Il Sole 24 Ore 28/3/2011, 28 marzo 2011
GUERRA, DISASTRI E NUCLEARE NON FERMERANNO LA RIPRESA
Il duro colpo della guerra in Libia (con corollario di rivolte in altri paesi arabi) e delle devastazioni in Giappone (con annessi pericoli nucleari) ha colpito l’economia mondiale. L’ha colpita in una fase ciclicamente forte, con la ripresa che andava dispiegando le ali, e questa tempistica dell’urto limiterà i danni. Ma i danni ci sono, e l’uno-due dei disastri bellici e naturali toglierà da mezzo punto a un punto alla crescita
I RISCHI DELLA SFIDUCIA
L’incognita maggiore è la centrale nucleare giapponese. Se la radioattività si fa più pesante le conseguenze sulla fiducia - non solo in Giappone ma anche nei paesi vicini - possono portare a un importante vuoto di spesa. L’Europa è il continente geograficamente più protetto, ma, data la dipendenza da petrolio, è anche quello più esposto al rincaro del greggio
INFLAZIONE SENZA RISCHI
L’inflazione non dovrebbe soffrire oltre misura dagli aumenti delle materie prime, a cominciare dal petrolio. Al netto di alimentari ed energia, la dinamica dei prezzi al consumo si mantiene bassa (intorno all’1%). La domanda di petrolio rallenterà di conserva alla riduzione dei tassi di crescita e questo effetto-domanda dovrebbe limitare l’effetto-offerta legato alla riduzione presente della produzione libica e ai timori di riduzione futura legato alle rivoluzioni arabe
IL DOLLARO TERRÀ
L’effetto-rifugio sul dollaro (le tensioni geopolitiche aiutano il biglietto verde) non ha funzionato, come già si notava nelle precedenti Lancette. Ma l’indebolimento, che ha portato il cambio euro/dollaro sulle soglie di 1.42 ha poche probabilità di proseguire, malgrado le attese di un incombente, anche se largamente simbolico, aumento dei tassi in Eurolandia. Il dollaro debole si porta appresso uno yuan scomodamente debole: la flessibilità del cambio cinese lascia molto a desiderare Indicatori reali
L’economia globale galoppa. Il tachimetro degli scambi internazionali segna, all’imbocco del 2011, una velocità vertiginosa: +20% annualizzato nei tre mesi a gennaio. Anche prendendosi una pausa, potrebbero mettere in cascina un altro incremento a due cifre quest’anno, dopo il +15,0% nel 2010. Gli indici coincidenti di fiducia e diffusione dell’incremento dell’attività economica sono molto alti, addirittura in alcuni casi registrano record pluriennali; soprattutto riguardo agli ordini e alla produzione manifatturiera, più sensibile alle oscillazioni del ciclo. Gli indici anticipatori, a cominciare da quello Ocse, puntano addirittura a un’accelerazione dell’espansione. La ripresa è vigorosa, anche perché è giovane. E perché nei paesi avanzati resta ben supportata dalle politiche monetarie.
Il contesto fa la differenza nel valutare l’impatto dello shock dovuto al balzo del petrolio e delle altre materie prime che si è abbattuto su sistemi economici che portano i segni della grande recessione (i più visibili sono quelli sulla disoccupazione e sui conti pubblici). E anche dell’altro shock: il maremoto giapponese con corollario di emergenza nucleare. Perché in passato gli effetti degli shock erano stati amplificati dalla stanchezza del ciclo (consumi e investimenti stavano già frenando) e dall’impostazione restrittiva delle politiche, che puntavano a raffreddare la congiuntura.
Questo non significa che non ci saranno effetti, anche importanti. Ma al margine e relativi. Al margine, nel senso che produrranno un po’ di minor crescita (da mezzo punto a un punto in meno sul Pil Ocse nel 2012), e non certo una recessione. Relativi, perché si sentiranno di più nei Paesi che già crescono meno, sui consumi più che sulle esportazioni, sulle fasce di reddito più basse, sui paesi più dipendenti dall’energia importata. Per alcuni di questi punti di vista l’Italia appare più sfavorita di altre economie.
L’insieme dei dati congiunturali, infatti, conferma che la crescita è robusta in Usa e Germania, sta rallentando da ritmi molto sostenuti in alcuni grandi emergenti, rimane fiacca nell’economia italiana. Qui non è facile sciogliere il rebus costituito dai risultati positivi delle indagini qualitative e dai numeri della produzione industriale, che oscilla senza imboccare con decisione la strada del rilancio. Mentre l’export, unica componente della domanda che davvero va bene, tanto da aver recuperato quasi per intero la flessione vertiginosa del 2008-09, pure non progredisce nella stessa misura degli scambi mondiali.
Inflazione
La temperatura dei prezzi al consumo è in aumento, ma resta bassa (2,4% annuo in Eurolandia, 2,1% in Usa a febbraio) e l’accelerazione è tutta dovuta all’impatto dei rincari delle materie prime. Al netto di energetici e alimentari, la variazione annua è molto contenuta (1%) e non dà segni di cambiamento. L’esperienza del 2008, quando ci fu uno shock analogo dalle commodity, è che l’inflazione core salirà un po’, ma non si innescherà una spirale inflattiva. Alta disoccupazione, basso utilizzo della capacità produttiva e concorrenza spietata degli emergenti impediscono travasi dei costi e bloccano la rincorsa dei salari.
Tassi di interesse, valute, moneta
In Nuova Zelanda i tassi ufficiali sono stati ridotti dopo il terremoto di Christchurch. In Giappone, con tassi già a zero, la banca centrale ha intensificato le misure di espansione quantitativa (che, diciamolo, lasciano il tempo che trovano). In paesi meno colpiti dai disastri, invece, le attese sono ancora per un aumento dei tassi-guida. Dietro queste attese vi sono due considerazioni di fondo: la prima è che gli eventi bellici in Libia, anche se rinfocolano gli aumenti del petrolio, non mettono in pericolo la tendenza sottostante dell’inflazione, dato che manca l’anello cruciale del "secondo round": le rivendicazioni salariali restano moderate. La seconda è che, malgrado il conflitto in Libia e le catastrofi in Giappone, la ripresa dell’economia mondiale continuerà e si avvicina il momento di "normalizzare" i tassi. L’eufemismo - normalizzare invece che aumentare - è giustificato, dato che il livello attuale dei tassi-guida sulle due rive dell’Atlantico è anormalmente basso.
L’aumento - sorry, normalizzazione - dei tassi in Europa potrebbe avvenire anche a breve, e questo spiega la forza dell’euro, che è andato, sia pure di poco, al di là del limite superiore della forchetta 1.30-1.40 (del cambio contro dollaro) in cui giaceva da tempo. Già nelle Lancette del mese scorso si notava che l’effetto-rifugio non sembrava più funzionare per il dollaro. Gli eventi geopolitici (nel senso di "geologico-politici") in Medio Oriente e in Giappone non hanno innescato una corsa verso il biglietto verde, anzi, sono andati di conserva a un suo indebolimento. Un indebolimento cui contribuisce anche la situazione di stallo politico in America, con un Congresso paralizzato da maggioranze di diverso colore alla Camera e al Senato. Ma il dollaro ha ancora dalla sua un’economia in ripresa, e non è probabile che rivisiti i minimi del passato.