Lettere a Sergio Romano, Corriere della Sera 28/03/2011, 28 marzo 2011
MASSONERIA E RISORGIMENTO, GRAMSCI CONTRO MUSSOLINI
Vorrei farle una domanda nell’ambito delle celebrazioni dell’Unità d’Italia. Quale è stato l’apporto della massoneria nelle vicende storiche che hanno portato al cambiamento? Mi risulta che molti personaggi dell’epoca siano stati massoni. Mi pare che della massoneria si parli attualmente solo in negativo, ma non si dica alcunché rispetto all’Unità d’Italia. Perché non se ne parla? Ha ancora valore ricordare questo aspetto della massoneria?
Maria Rita Bonassi
bonassimariarita@libero. it
Cara Signora, secondo Antonio Gramsci, la massoneria fu negli anni del Risorgimento il partito politico della borghesia italiana. La definizione è tratta dal discorso che il leader comunista pronunciò alla Camera dei deputati il 16 maggio 1925 quando il governo Mussolini presentò un disegno di legge che obbligava tutte le associazioni, gli enti e gli istituti a «comunicare all’autorità di pubblica sicurezza, ogni volta questa ne avesse fatto richiesta, l’atto costitutivo, lo statuto, i regolamenti interni e l’elenco nominativo delle cariche sociali, oltre all’elenco dei soci» . Il discorso è ora contenuto in appendice a una raccolta antologica degli articoli di Gramsci pubblicata da Chiarelettere con il titolo «Odio gli indifferenti» in una piccola, elegante collana di «libri del pensiero pensati per il futuro» .
La massoneria non era espressamente indicata nella legge, ma ne era certamente il principale obiettivo. Le sue logge erano state l’anima laica del Risorgimento e cellule di agitazione patriottica. Ma erano progressivamente diventate, dopo l’Unità, i tasselli d’una rete d’influenza che dichiarava di essere impegnata nella creazione di una classe dirigente nazionale, ma lavorava anzitutto a favorire le ambizioni professionali dei suoi soci. Agli inizi del Novecento la massoneria aveva perduto buona parte della sua reputazione e del suo credito. Già invisa alla Santa Sede e ai cattolici per il suo anticlericalismo, non era amata né dai maggiori intellettuali del tempo (Benedetto Croce, Giovanni Gentile, La Voce di Giuseppe Prezzolini), né dai nazionalisti di Luigi Federzoni, né dai socialisti di Benito Mussolini.
Non poteva piacere, quindi, neppure a coloro che nel 1921, durante il congresso di Livorno, avevano lasciato il Partito socialista per costituire il Partito comunista d’Italia. Ma Gramsci vide nella legge del 1925 un segno evidente della strategia fascista. Mussolini voleva conquistare lo Stato e intendeva eliminare tutti quei corpi intermedi che avrebbero reso la sua operazione più difficile. Per contrastare tale strategia Gramsci fece un discorso in cui parlò poco della massoneria e molto, con qualche forzatura marxista, del capitalismo italiano e dei suoi limiti, della borghesia e della sua fragilità, della politica fiscale adottata nel Mezzogiorno e dell’emigrazione di massa che ne era stata l’effetto. Quando una voce dall’aula gridò «Parli della massoneria» , preferì affermare che il governo avrebbe dovuto «restituire al Mezzogiorno le centinaia di imposte che ogni anno estorcete alla popolazione meridionale» . Non gli era possibile, evidentemente, diventare l’avvocato difensore della massoneria e rimproverare a Mussolini ciò che i comunisti avrebbero fatto se avessero conquistato il potere. Vide giusto, tuttavia, quando sostenne che coi massoni «il fascismo arriverà facilmente a un compromesso» .
Aggiungo, cara Signora, che il Museo del Risorgimento di Milano ha già iniziato una serie di incontri sulla massoneria e che il Grande Oriente d’Italia, la maggiore istituzione massonica italiana, ha organizzato eventi durante i quali si parlerà del suo ruolo nel Risorgimento e dei molti uomini politici italiani che furono al tempo stesso massoni e patrioti. Ne ha certamente il diritto, anche se la sua storia, dopo l’Unità, non fu sempre all’altezza dei meriti che ebbe nella fase dei moti risorgimentali e della creazione dello Stato.
Sergio Romano