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 2011  marzo 28 Lunedì calendario

LA FOLLE CAVALCATA DELL’ESERCITO RIBELLE

Date un’occhiata alla cartina della Libia, quella che anche noi reporter teniamo ben aperta qui sullo zaino sul quale lavoriamo. Credo che nessuno possa trattenere un «uhm!» di stupore, se soltanto misura la rapidità delle conquiste di coloro che fino a ieri erano un esercito straccione e oggi sembrano più veloci perfino delle due volpi del deserto, Rommel e Montgomery quando, con mille trappole in questo sterminato orizzonte vuoto e piatto, si inseguivano per decidere la Seconda guerra mondiale. Leggete i nomi che oggi portano piantata la bandierina a tre colori della Rivoluzione, a partire dalla costa della Cirenaica e a muovere verso SudOvest: prima Bengasi, poi Ajdabiya, ora subito Brega, e subito dopo Ras Lanuf, e ancora Uqayla, e perfino Ben Jawad. Altro che nipotini dell’armata Brancaleone, questi affondano dentro le terre di Gheddafi con una capacità di penetrazione che rischia addirittura di lasciarli senza supporto logistico.

Ieri mattina erano ancora qui, ad Ajdabiya, oggi, incredibilmente, li troviamo quattrocento chilometri più a Ovest; e questo vuol dire che corrono come e meglio d’un Bikila, non solo senza trovare una reale resistenza a fuoco, ma anche senza alcun supporto di tank che li affianchi e li sostenga: sono una sorta di massa disordinata che spinge la linea del fronte soltanto con i suoi velocissimi pick-up armati di Duchka, con i lanciagranate Grad (quelli che hanno 40 bocce di fuoco), e poi con la folla colorata, sterminata, rumorosa, soprattutto incasinata, di camioncini e di autobus che, tra bandiere al vento e urla di entusiasmo, li trasporta in avanti come fosse una pazza gita fuoriporta.

Che strana guerra ch’è diventata, questa, in appena 24 ore. Saltato il tappo di Ajdabiya, il fronte dell’avanzata ormai tracima senza più contenimento. E mette Gheddafi con le spalle al muro. Il Raiss poggiava su due pilastri la sua capacità di resistere alla Nato: il primo era Ajdabiya, il secondo è Misurata. Non perché queste due battaglie fossero strategiche dal punto di vista militare, ma piuttosto perché segnavano sul terreno, e però anche simbolicamente, e in guerra i simbolismi aiutano a vincere, la capacità di sbeffeggiare la No fly zone e riprendersi la Libia. Caduta Ajdabiya, crollato il primo pilastro, lo sbilanciamento che Gheddafi deve subire è drammatico, perché ora tutta laguerra pare doversi giocare nelle strade vuote di Misurata, da dove la gente scappa via senza più acqua né cibo né elettricità.

Solo che questo, che fino a ieri sembrava un obiettivo possibile se non certo, e anche a breve, oggi si sta trasformando per il Colonnello in un altro rischioso gioco a perdere: ieri, infatti, le squadriglie aeree di Francia e Inghilterra hanno attaccato non solo gli elicotteri e i Mig che Gheddafi teneva bloccati sulle piste (vengono dati come distrutti 5 aerei e 2 elicotteri), ma hanno anche colpito con i loro missili alcuni carri armati e pezzi d’artiglieria che assediavano Misurata. E se si ripensa a quanto è accaduto in questi giorni qui, ad Ajdabiya, dove lo stallo che pareva insuperabile è stato cancellato con una sola notte di missili francesi sui tank che assediavano la città, si può capire bene come si stia mutando profondamente, forse anche irrimediabilmente, il corso della stessa guerra.

Si può pure discutere se questa estensione dell’azione militare contro tank e cannoni stesse all’interno della cornice tracciata dalla Risoluzione 1973 dell’Onu e tuttavia resta il fatto che l’asimmetria di questa guerra che, prima, andava a tutto vantaggio delle forze di Gheddafi, oggi è invece diventata una asimmetria che porta il Colonnello dritto dritto alla sconfitta: anche militare.

Il ministro inglese della Difesa, Liam Fox, smentisce qualsiasi notizia di fornitura di armi pesanti all’armata Brancaleone, e lo stesso fanno la Clinton e Sarkozy; ma nei giorni scorsi abbiamo ben visto lunghe colonne che da Bengasi muovevano verso la linea del fronte con carichi che era difficile non considerare di armi e di munizioni. E anche se finora dai ribelli non pare entrare in campo nulla più di quei pochi carri armati presi dalle caserme al momento della rivolta, il rafforzamento della loro linea di fuoco è evidente.

Per capire bene che cosa sia questa incredibile avanzata, bisogna tenere ben chiaro che questo infinito Paese ch’è grande 6 volte l’Italia (con appena 6 milioni di abitanti) ha poi le sue città come tanti puntini che vivono perduti nel nulla del deserto; è proprio come si può leggere nella cartina geografica cui si dà un’occhiata, una serie di strade che legano le città l’una all’altra ma, tra una città e l’altra, c’è poi soltanto il niente arido e giallastro dì un orizzonte vuoto. E nell’avanzata vien meno la necessità di assumere il controllo del territorio, giacché il territorio è il nulla: una volta presa la strada, vai.

La cavalcata di ieri non è solo la stupefacente immagine d’una guerra diversa da quelle che hanno fatto il tempo moderno, ma è anche una vittoria che strappa via dalle mani di Gheddafi il più ricco bacino petrolifero della Libia. E il petrolio sta disteso come il vero, forse unico, certificato d’identità sulle mille altre identità che a questa guerra, da più parti, si tenta di dare, sventolando bandiere comunque di libertà, di democrazia, di diritti umani. Ieri, Brega e Ras Lanuf hanno cambiato bandiera, ora viene il turno di Sirte, che è la città dov’è nato Gheddafi. Tenete aperta la cartina, domani potremmo dover aggiungere un’altra bandierina tricolore a quelle piantate velocemente ieri. Non solo. Prendere Sirte è come dare una pugnalata al cuore del raiss.