Giancarlo Calzetta, Corriere della Sera 26/03/2011, 26 marzo 2011
PRIVACY VIOLATA DAGLI SMARTPHONE. QUANDO LA «APP» E’ TROPPO INVADENTE
Il nostro smartphone sa praticamente tutto di noi: conosce il nostro numero di telefono, il nostro indirizzo, quello dei nostri amici, conoscenti, colleghi e ha addirittura l’agenda completa dei nostri impegni. Sa dove ci troviamo e dove stiamo andando. Noi pensiamo che il tutto sia ben custodito in quel piccolo involucro di metallo, ma spesso sottovalutiamo l’ingegno di chi vive tracciando le abitudini dei consumatori. E la nostra mancanza di abitudine a trattare con cellulari a volte troppo «smart» .
Uno studio condotto da un ricercatore Intel e da un dottorando della Penn State University ha infatti svelato che, delle 30 applicazioni più scaricate sui telefonini con sistema operativo Android, ben 15 inviavano a server pubblicitari la posizione geografica degli utilizzatori, ricavata tramite l’analisi delle reti wi-fi o presa direttamente dal gps integrato. Ma non è tutto: sette di quelle 30 includevano nel pacchetto anche i dati che identificavano il cellulare stesso e, in un caso solo, addirittura il numero di telefono. Non va meglio neanche sul fronte Apple, anzi: in nome della filosofia «non disturbare con richieste inutili» che ha fatto la fortuna della casa di Cupertino, l’iPhone invia informazioni a destra e a manca, senza dire granché al proprietario del telefono. Chi si è accorto di quanto stava succedendo, però, non l’ha presa bene e il 28 dicembre 2010 due gruppi separati di utenti iPhone e iPad hanno portato in tribunale la società della Mela contestando il fatto che Apple passi delle informazioni sensibili ad altre aziende senza l’espresso consenso degli utenti (e senza fornire un’adeguata contropartita).
Basta scaricare un’applicazione troppo «invadente» e i nostri dati e abitudini vengono tracciati in maniera dettagliata. E, di fatto, l’unica difesa che possiamo avere è quella di stare attenti, perché l’i-Phone, per esempio, ci avvisa solo se un’applicazione vuole accedere al gps o alla nostra rubrica dei contatti. L’avviso si ferma lì e non ci dice a chi o come verranno usati quei dati e omette completamente di informarci sull’eventuale necessità dell’applicazione di mandare in giro gli identificativi del nostro telefono, dell’utente o del numero di cellulare. Addirittura un’applicazione al top come «Pandora» invia l’età, il sesso e altre informazioni personali a server esterni, mentre la scaricatissima «Paper Toss» provvede a inviare l’identificativo unico dell’utente. Come se per lanciare una pallina di carta in un cestino servisse esser monitorati dal Grande Fratello.
Molto meglio si comporta Android: ogni volta che si va a installare un’applicazione, infatti, appare una schermata che ci indica quali informazioni vengono richieste dal programma che verrà installato, ci viene specificato se l’applicazione vuole accedere a Internet, se vuole dialogare con la nostra agenda, scaricare i nostri contatti e così via. Ma siamo ancora lontani dalla perfezione. Un esempio lampante è quello di «Coveroid Wallpapers Hd» , una app gratuita e molto popolare che si scarica dal market ufficiale Android. In cambio di tante belle foto da usare come sfondo per lo smartphone, ci chiede: numero e identità del telefono, accesso alla nostra posizione, l’accesso completo a Internet e ai dati sulla scheda Sd. Vale davvero la pena di dare via tutte queste informazioni per qualche bella foto?
Un altro dato inquietante è quello delle applicazioni che vogliono accedere alla parte telefonica del nostro smartphone: ben il 5 per cento delle applicazioni Android chiede il permesso di fare telefonate. Considerato che l’unica applicazione in grado oggi di usare in maniera sensata il nostro telefono è «Google Voice» (e «Skype» lo sarà, forse, in futuro), qualche sospetto sul fatto che alcuni sviluppatori non ci dicano tutta la verità dovrebbe sorgerci. Man mano che i cellulari diventano più «intelligenti» , dobbiamo quindi evolvere anche noi umani nei modelli di comportamento, facendoci più furbi dei terminali che usiamo tutti i giorni. Tradotto: non bisogna cliccare sempre «ok» senza leggere i messaggi sullo schermo. Finché Apple e Google non troveranno un modo per far rispettare a tutti le regole, per utilizzare al meglio gli smartphone servono degli «smartusers» .
Giancarlo Calzetta