???, La Stampa 26/03/2011, 26 marzo 2011
Con Mario Lodi maestro , a cura di Carla Ida Salviati, edito da Giunti, ritorna la possibilità di ascoltare le voci dei bambini del Vho, e raddoppiare anche un’inevitabile constatazione: nessuno come Mario Lodi ha saputo dar voce ai suoi scolari, loro sono qui, a stupirci con l’incantata alterità del loro discorso, collocati nel 1951, nel 1952, ma sottratti alla Storia, oppure da sistemare entro un’altra storia
Con Mario Lodi maestro , a cura di Carla Ida Salviati, edito da Giunti, ritorna la possibilità di ascoltare le voci dei bambini del Vho, e raddoppiare anche un’inevitabile constatazione: nessuno come Mario Lodi ha saputo dar voce ai suoi scolari, loro sono qui, a stupirci con l’incantata alterità del loro discorso, collocati nel 1951, nel 1952, ma sottratti alla Storia, oppure da sistemare entro un’altra storia. Fin dal 1928, Felice Socciarelli, con Scuola e vita a Mezzaselva , allora edito dall’Associazione per il Mezzogiorno, raccontò la sua vicenda di maestro in una scuola dell’Agro Romano, cominciata il 22 ottobre 1919. Ci sono molte fotografie, nel suo libro, e appaiono indispensabili, perché i «bambini mezzaselvesi», con i loro cappelli «da grandi» e i panni entro cui sono più o meno infagottati, non sono propriamente immaginabili. Allievo di Giuseppe Lombardo Radice, attento alla sua colta innovazione pedagogica, Socciarelli non si meraviglia che la sua scuola sia una capanna, perché tutta Mezzaselva è fatta di capanne e riproduce invece lo scritto del suo scolaro Quintillio, saggio e preciso come quello di un antropologo: «So ito a vedere quelli che falciano la prata pare che non fadigano gnente e invece se straccano tanto». L’edizione del 1954, de La Scuola di Brescia, mostra Felice Socciarelli come era nel 1951 poco prima di morire: ha proprio l’aria di un etnologo, di un esploratore di terre lontane, affaticato ma non vinto. Due maestri che erano anche apprezzati pittori, Italo Cinti di Bologna e Federico Moroni di Sant’Arcangelo di Romagna, ci hanno lasciato, con Diario di un anno e con Ricordi e amnesie , due splendide testimonianze sulla quotidianità del maestro artista. Moroni, realista minuzioso, fa lavorare i suoi bambini con chine e pennini perché scoprano l’anima delle cose e diventino custodi di una civiltà che le macchine stanno annullando, Cinti, aeropittore futurista, conduce le sue classi alla scoperta di estasi coloristiche vicine ai fauves : entrambi sono cronisti minuziosi di quello «stupore infantile» descritto da Zolla. Nel 1957, quando esce la prima edizione del Diario di una maestrina di Maria Giacobbe, l’editore Laterza lo fa precedere da una prefazione di Umberto Zanotti-Bianco che è necessaria e puntuale. Infatti la «maestrina» insegna in quelle zone della Sardegna dove in quegli anni ci sono i «banditi di Orgosolo» resi famosi dalla stampa e dal cinema, e l’insegnante sa di dovere lottare con i suoi alunni non in vista di un esito scolastico, sempre considerato con scrupolo e con rigore, ma pensando a un riscatto sociologico di cui pone le basi proprio con questa sua opera sapiente, poetica e battagliera. Sempre dalla Sardegna proviene Le bacchette di Lula di Albino Bernardini - noto poi per Un anno a Pietralata -, edito da La Nuova Italia nel 1969: il capitolo Sesto, La bacchetta , si offre sempre a una lettura dolorosa e struggente, perché è quello in cui i nuovi alunni conducono il nuovo maestro a vedere l’abbondante provvista di bacchette con cui li deve picchiare e restano sconcertati quando scoprono che lui non sa nulla di quella pratica torturatoria sulla quale il precedente insegnante fondava interamente la sua pedagogia e la sua didattica. Un’impressione non positiva, fra noi insegnanti di allora, aveva prodotto Il maestro di Vigevano , edito da Einaudi nel 1962: ai maestri del mio Circolo Didattico sembrava che Lucio Mastronardi cercasse lo scandalo quasi con i toni delle riviste scandalistiche di allora e, certo, pur parlando di scuola, pur mostrando buona conoscenza di corridoi, coefficienti di anzianità, gerarchie, scatti di stipendio, il maestro che racconta sa poi solo odiare, isolarsi, deprimere e deprimersi. Ci fu anche una curiosa coincidenza editoriale, perché Garzanti pubblicò proprio allora Il demone meschino di Fëdor Sologub, scritto nel 1907, un autentico capolavoro, scritto da un maestro russo laureato in pedagogia, dove la scuola zarista è piena dello stesso infernale «catrame dell’anima» così abbondante nelle aule di Vigevano. Non mi è mai apparsa tollerabile la studiata sottovalutazione pedagogica di cui è stato reso vittima Ricordi di scuola di Mosca, edito da Rizzoli nel "Nell’Agro Romano a fine Anni Venti con Felice Socciarelli, in Sardegna con la Giacobbe e Bernardini L’aspro scandalismo di Lucio Mastronardi, l’abile umorismo di Giovanni Mosca e altri nomi da riscoprire"