Roger Abravanel, Corriere della Sera 26/03/2011, 26 marzo 2011
Nel suo articolo di ieri su questo quotidiano («Troppe svendite nel passato, la lezione per tenerci Parmalat» ) , Massimo Mucchetti identifica un chiaro colpevole per la «svendita» di imprese come Bulgari, Telettra, Bnl, Nuovo Pignone: l’eccessivo liberismo italiano
Nel suo articolo di ieri su questo quotidiano («Troppe svendite nel passato, la lezione per tenerci Parmalat» ) , Massimo Mucchetti identifica un chiaro colpevole per la «svendita» di imprese come Bulgari, Telettra, Bnl, Nuovo Pignone: l’eccessivo liberismo italiano. E ricorda con nostalgia i momenti in cui Romano Prodi bloccò la operazione Abertis-Autostrade e la vendita di Telecom Italia a «spagnoli e messicani» , auspicando che «le società italiane inseriscano delle difese nei loro statuti» e un ritorno allo «spirito costruttivo degli anni 50» . Io la penso in modo diverso anche se anche a me dispiace vedere cedere la proprietà di imprese italiane frutto dell’innovazione di un Nobel (Himont) o leader nella ricerca anticancro (Farmitalia) o interpreti del cibo italiano (Buitoni) o del «made in Italy» (Bulgari). E ovviamente ritengo giusto richiedere la reciprocità alla Francia che ha bloccato la operazione Enel-Suez. Ma il protezionismo della proprietà delle imprese ha sempre fatto gravi danni come lo ha fatto quello sul commercio dei prodotti: le imprese devono andare nelle mani dei migliori azionisti, capaci di farle crescere. Il vero responsabile della svendita delle imprese italiane non è l’eccessivo liberismo della economia italiana, recentemente valutata dal World Economic Forum all’ 88 ° posto sull’indice della libertà economica dopo Turchia e Tailandia. Il vero responsabile è uno dei figli di questa mancanza di libertà economica, il capitalismo famigliare italiano che è riuscito ad esprimere poche Luxottica (acquirente di grandi imprese in Usa e di marchi prestigiosi come Rayban e Oakley) perché da sempre è stato più interessato al controllo da parte della famiglia dell’impresa che alla sua crescita. Per mantenere il 51%rinuncia a grandi operazioni che potrebbero «diluire» la sua maggioranza. Non valorizza in chiave strategica i consigli di amministrazione (la qualità dei cda italiani è considerata dal World Economic Forum molto bassa) e mette nel management figli (maschi) spesso impreparati o manager più fedeli che eccellenti. E chi lavora con le imprese globali sa quanto sono complesse le operazioni di acquisizione internazionali e quanto sia cruciale la qualità della governance e della leadership di chi le porta avanti. I dati dell’osservatorio KPMG sulle fusioni e acquisizioni parlano chiaro: su 270 miliardi di acquisizioni all’estero fatte da imprese italiane in 20 anni, la maggioranza è stata da fatta da grandi imprese espressione dell’ex-capitalismo di stato (Enel-Endesa, Eni-Distrigas/Lasmo, Finmeccanica-Drs Technologies/Agusta Westland) o dell’azionariato «diffuso» (Unicredit-HypoVereinsBank/Banka Pekao, Generali-Amb/GPa, Fiat-Chrysler). Non abbiamo bisogno di «tornare agli anni 50» come auspica Mucchetti, perché in realtà la nostra economia è ferma proprio agli anni 50. Mentre le società avanzate sono entrate in una era «post-industriale» dove si valorizza il talento e il paradigma economico non richiede più fabbriche di piccole imprese che producono prodotti, ma grandi imprese che valorizzano eccellenza e talenti che producano idee per farle crescere, noi siamo ancora fermi ad un modello obsoleto di piccole imprese industriali che esportano grazie a un imprenditore geniale che riempie le fabbriche per i suoi operai. Per «tenerci Parmalat» , non abbiamo bisogno di meno libertà economica e più protezionismo, ma di azionisti eccellenti in grado di competere con Lactalis nel creare idee che creano più valore per i suoi azionisti e più opportunità per i suoi lavoratori. meritocrazia. corriere. it © RIPRODUZIONE RISERVATA