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 2011  marzo 25 Venerdì calendario

Rinchiudersi in casa è sempre sbagliato - Quando chiesero a Paul Samuelson se esisteva un ar­gomento in grado di riscuotere il fa­vore degli econo­misti (in genere assai divisi), egli rispose che a suo parere la quasi totalità degli studiosi è fa­vorevole a evitare dazi e doga­ne

Rinchiudersi in casa è sempre sbagliato - Quando chiesero a Paul Samuelson se esisteva un ar­gomento in grado di riscuotere il fa­vore degli econo­misti (in genere assai divisi), egli rispose che a suo parere la quasi totalità degli studiosi è fa­vorevole a evitare dazi e doga­ne. La cosa non deve stupire, da­to che alle origini della civiltà ci sono proprio la divisione del la­voro e la specializzazione che ne consegue, ma tutto ciò sareb­be impossibile in assenza del li­bero scambio. In questo senso, il protezioni­smo praticato da tanti Paesi oc­cidentali (e ora riproposto pure dal governo italiano, alle prese con una dura vertenza con Pari­gi) rappresenta un ritorno al passato remoto. In generale, è un atteggiamento che non solo si sposa con logiche autoritarie, come avvenne al tempo dell’au­tarchia mussoliniana, ma che soprattutto riduce quell’integra­zione internazionale senza la quale molta della prosperità che ci circonda semplicemente non esisterebbe. La chiusura di fronte allo «stra­niero » è spesso sostenuta da de­boli argomenti economici. Si af­ferma, ad esempio, che le merci cinesi distruggono i posti di lavo­ro italiani, ma non ci si avvede che i cinesi portano qui i loro prodotti solo se noi spediamo là i nostri. E quindi se in Italia c’è qualcuno che non potrà più pro­durre jeans a 30 euro perché gli italiani preferiscono quelli cine­si che costano la metà, questo succede perché una parte della nostra produzione cresce e tro­va sbocco proprio nei mercati asiatici. Aprire i mercati signifi­ca scoprire nuove opportunità: esattamente come quando qualcuno produce innovazio­ne e, fatalmente, mette fuori gio­co altre aziende. Vogliamo im­pedire l’innovazione, dal mo­mento ne derivano anche con­seguenze negative? Sul fatto che sia meglio che due Paesi tengano aperti i loro mercati, però, il consenso è ab­bastanza ampio. Le cose talvol­ta cambiano di fronte all’ipotesi di restare egualmente liberali quando un altro Paese, invece, si chiude. In breve, di fronte a una Francia che si arrocca ha senso che l’Italia resti liberale? La mia risposta è affermativa, per una ragione molto sempli­ce. L’apertura dei mercati non è solo funzionale alla possibilità di esportare.Un’economia gua­dagna quando esporta, ma an­che quando importa, e questo è del tutto evidente quando si os­servano i danni delle politiche che ostacolano l’importazione. Un caso da manuale è quello dell’Argentina,che avendo scel­to di bloccare ogni importazio­n­e di beni che qualcuno già rea­lizzasse in loco non soltanto ha colpito pesantemente i consu­matori, ma ha minato le pro­spettiva delle stesse aziende. Co­me poteva un’impresa di Bue­nos Aires reggere la concorren­za internazionale se i suoi com­petitori d­i altri Paesi si approvvi­gionavano presso le imprese mi­gliori, mentre essa doveva ne­cessariamente rifornirsi da aziende locali, anche se ineffi­cienti? Quando la Francia si chiude, insomma, danneggia i francesi e il proprio sistema pro­duttivo. Per quale motivo l’Ita­lia dovrebbe fare imitarla? Le questioni si complicano un po’ quando abbandoniamo le logiche di mercato, conside­rando le implicazioni politiche. D’altra parte, è pur vero che il protezionismo è una cosa sola con quello Stato moderno (da Colbert a Napoleone, da Bi­smarck a Lenin) che ha visto i po­lit­ici impadronirsi della vita pro­duttiva e quest’ultima diventa­re una componente del conflit­to politico: all’interno come al­l’esterno. Quando le cose stan­no così, ha ancora senso essere liberali? Se aprire le frontiere agli scambi significa consentire a fondi sovrani e ad aziende con­tro­llate da altri governi di acqui­stare pezzi importanti del no­stro sistema produttivo, siamo sicuri che la logica del mercato abbia ancora legittimità? Pure in questo caso mi sento di dire che sarebbe assurdo bloccare le merci alle dogane, introdurre golden share a dispo­sizione del ceto politico e anche fare shopping giuridico - per usare la formula utilizzata da Giulio Tremonti- al fine di adot­tar­e le regole più illiberali prece­dentemente introdotte altrove. Se si riflette solo un attimo, ci si rende subito conto che quel ti­po di preoccupazione («arriva una potenza straniera e s’impos­sessa di nostre imprese fonda­mentali ») ha spazio solo in un Paese statizzato, ossia in una so­cietà dominata da monopoli pubblici o comunque protetti dalla legge. In un Paese che abbia sposato davvero le logiche della concor­renza, l’acquisto di un’azienda (una banca, una compagnia te­lefonica, un’industria che pro­duce latte e yogurth, ecc.) da parte di un altro Stato non può creare la minima apprensione. Quell’impresa reggerà se sarà ben gestita e, quindi, se soddi­sferà i consumatori producen­do a basso prezzo e alta qualità. Se non sarà così, i clienti si rivol­geranno altrove. Non si tratta di essere dottrina­ri, ma si tratta semplicemente di constatare che gli argomenti pretestuosamente ’difensivi’ usati in questi giorni svelano ­ma certo lo sapevamo già ­quanto l’Italia sia lontana dall’ essere un libero mercato e quan­to, invece, sia un conglomerato di potentati che s’alimentano con rendite politiche. Essi ci di­cono anche come sia collettivi­sta il modo prevalente di consi­derare la vita economica, dal momento che ’sbarrare la stra­da’ allo straniero significa spo­destare i proprietari. Siamo di fronte, in poche parole, a una forma di esproprio. I principali argomenti contro il protezionismo e le chiusure nazionalistiche, ad ogni modo, non sono di natura economica. Gli autori liberali amano ricor­dare una celebre espressione di Frédéric Bastiat (ricorre in Bru­no Leoni, ad esempio), che una volta affermò che quando una frontiera non viene attraversata dalle merci, prima o poi vedrà il passaggio degli eserciti. La sto­ria purtroppo s’è incaricata di dare ragione all’economista francese, dato che il protezioni­smo di fine Ottocento ha favori­to quella crisi delle relazioni eu­ropee che porterà alla Grande Guerra. Cancellare i dazi, al contrario, significa predisporsi a mettere da parte i cannoni. E infatti quando Amsterdam era il cuore economico e culturale dell’Eu­ropa, oltre che la sua città più tol­­lerante, sul porto troneggiava una grande scritta, ’Commer­cium et Pax’. Quella gente ave­va ben chiara la relazione tra l’uno e l’altra, e come la chiusu­ra delle frontiere potesse essere foriera di conflitti e di morte.