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 2011  marzo 11 Venerdì calendario

I NUOVI HOLLY E BENJI

Yuto Nagatomo è il sole definitivamente levato. Un inchino dopo il gol e uno prima di ogni collegamento televisivo. Perché il Giappone ha un altro simbolo ed è quello finale: l’arrivo di una rincorsa durata anni, partite con le trombette della coppa Intercontinentale che molestavano le nostre orecchie quando eravamo ragazzini, passata per giocatori mediocri diventati sufficienti, poi bravi, adesso bravissimi. Non c’era mai stato un giapponese in una squadra top d’Europa. Nagatomo è il primo. C’era un sudcoreano, c’erano molti africani, c’erano australiani. Non un samurai. E’ arrivato. Piccolo, discreto, cocciutamente professionista. Il luogo comune più bieco sui giapponesi portato su un campo di pallone per dimostrare che a volte gli stereotipi non nascono a caso. Allora Naga seguito sempre da un piccolo stuolo di giornalisti è un esempio, una specie di bandiera da sventolare: bianca col disco rosso al centro. Segno distintivo, simbolo d’appartenenza, emblema di un traguardo raggiunto. Chiedono, dicono, ascoltano: la storia del primo che ce l’ha fatta, portandosi dietro un paese che non aveva il calcio come sport nazionale, ma adesso ce l’ha, che amava palle più piccole da tenere in un guantone o da battere con una mazza, mentre ora s’è definitivamente innamorato di un pallone grande da giocare coi piedi. E’ cresciuto il calcio giapponese: a ritmo doppio rispetto ad altri paesi che non ce l’avevano nel sangue. Adesso si presenta. Benvenuto nel vecchio mondo. La faccia è quella di Yuto, la storia pure. Con tutto quello che vuol dire. I dettagli, le curiosità, le manie: ti fanno sapere che Nagatomo è capace di coprire anche 15 chilometri in una sola partita grazie a un segreto tutto naturale: risponde al nome di umeboshi, cioé “le prugne (ume) salate della salute”. L’ha detto lo stesso Naga, spiegando morbosità che in Giappone fanno affezionare il pubblico al suo percorso. L’ha fatto sul suo blog: “Ho appena trovato un nuovo appartamento e sto benissimo. E ho portato con me una scorta di umeboshi. Sono ricche di acido citrico e aiutano a smaltire la stanchezza. Il sito (http://ameblo.jp/guapoblog) dove si confessa con la gente che lo segue dal Giappone e con quella che vuole conoscerlo qui in Europa, Nagatomo lo condivide con altri campioni nipponici come Hasebe e Nakamura. Loro sono un’altra parte della rincorsa giapponese alla consacrazione pallonara. Sono altre facce, altre storie simili a quella di Yuto. Sono tutti eredi di una generazione che aveva cominciato a esportare il Giappone a Ovest. Sono il presente che si chiude tutto nel gol di domenica, segnato a San Siro contro il Genoa, che ha scatenato la stampa sportiva del Sol Levante, da Tokyo Sports a Sports Nippon. Anche l’Asahi Shimbun, comunque, ha ceduto alla tentazione e fatto un richiamo in prima pagina “sull’impresa di Yuto”. Una foto e vai. Poi la cronaca, il reportage, l’intervista. Tutto rigorosamente preciso, tutto fermamente nazionalista, compresa la volontà ferrea di Yuto-ku (“il giovane Yuto”) e sulle “qualità da attaccante puro mostrate”. C’è anche l’attento esame delle statistiche: Nagatomo è il settimo samurai a segnare in Serie A, il primo difensore in assoluto. E’ come se un paese intero segua a puntata la storia. E’ come se in lui ci sia l’orgoglio collettivo e nazionale che si esprime in termini visti e stravisti: “Yuto-mania”, per esempio. Noi siamo assuefatti, i giapponesi l’hanno scoperta da poco e la si trova un po’ ovunque. Nagatomo s’è preso la copertina di Tarzan, il popolarissimo magazine patinato dedicato al wellness: “Ketsueki to hone” (“sangue e ossa”), è la scritta che accompagna un Nagatomo ripreso quasi ai raggi x, in senso reale, con una lunga intervista pieni di consigli su come costruire ossa forti e ottimizzare le funzioni del sangue. Nel suo ultimo commento sul blog del primo marzo, quello sulle qualità dell’umeboshi (“le compro da un negozio gestito da cinque generazioni”) ha spinto un produttore di prugne salate della prefettura di Wakayama, a sud di Tokyo, a fare suoi i giudizi del calciatore trasformandoli in slogan commerciali: “Ascoltate Nagatomo, mangiate umeboshi contro la stanchezza”.
Vale tutto con un idolo. E’ successo per Nakamura che arrivò in Italia a Reggio Calabria. E’ successo soprattutto con Hidetoshi Nakata che invece arrivò a Perugia e si trascinò per primo il carrozzone mediatico-sportivo-fanatico del Giappone che si voleva prendere il mondo.
Nakata oggi è ancora considerato il miglior giocatore e la stella più grande che il Giappone abbia mai avuto. Iniziò la sua carriera europea in maniera straordinaria, segnando 10 gol in 33 incontri. A metà della seconda stagione aveva già fatto abbastanza per convincere la Roma a offrirgli un ingaggio pari a sei volte rispetto a quello del Perugia. Si trasferì nella Capitale, giocò e si prese lo scudetto del 2001 da protagonista. Suo il gol forse più importante della stagione, quello segnato a Torino contro la Juventus. Nakata era una leggenda. Lo è ancora oggi che non gioca più perché s’è ritirato quando non aveva neanche trent’anni. Giovane e prematuro, giovane e finito presto. Lui che era il figlio di un’innamoramento collettivo per il calcio nato non grazie alla tv, ma a un fumetto. Noi lo conosciamo e lo conosceremo sempre come Holly e Benji. Loro, i giapponesi, come Capitan Tsubasa, versione cartacea del cartone che ha cambiato il destino di due generazioni di ragazzini. Noi lo sappiamo. Holly e Benji entrarono con quella sigla che poi è diventata un simbolo: na-nanara- nana-na, nara-na-na-nana. Entrarono facendo vedere stadi pieni per squadre di ragazzini. Entrarono mostrando la famiglia Atton appena trasferita a Fujisawa, ai piedi del monte Fujiama. Quello era il Giappone e nessuno dei bambini che stavano davanti alla tv l’aveva mai visto così: prima era soltanto bacchette, polpette di riso, sake, zoccoli e tavoli dove si mangiava in ginocchio. Qui sembrava tutto più facile: i nomi, le scarpe, le case. Oliver aveva undici anni, viveva con la madre perché il padre era un marinaio. Non aveva ancora amici, ma già un nemico. Senza saperlo. Stava qualche isolato più in là, sotto una collina, in una casa da ricco. Senza padre anche lui, ma con una specie di tutor, uno con gli occhiali scuri e la voce severa. Nemici per forza, Holly e Benji: uno piccolo borghese e felice, l’altro ricco, solo e triste. Rivali all’inizio, quando Oliver arriva al campo del quartiere e vede un gruppo di ragazzini che discutono: devono decidere se lì si può allenare la Newppy di Bruce Arper o il S. Francis di Benjamin Price. Lui fa il portiere, ha un cappello in testa con la scritta Genzo e dalla visiera spunta soltanto un occhio. E’ truce, sicuro, forte. Dice che se qualcuno riuscirà a segnargli un gol da fuori area, lui rinuncerà a quel campo. Si presentano tutti: giocatori di baseball, di pallamano, di rugby. Benji para tutto. Holly sta lì a guardare e chiede a Bruce di aiutarlo a sfidare Price. Arper non capisce, però accompagna Oliver sulla collina da dove si vede tutta la città, gli indica una villa enorme e bellissima. E’ la casa di Benji, lì lui ha una porta e si allena ogni pomeriggio. Holly prende un pennarello, scrive un messaggio di sfida sul pallone, poi calcia. La palla arriva tra le braccia di Benji. Non capisce, ma ha capito. Cioè sa che c’è un misterioso sfidante. Lo incontra qualche giorno dopo, ai bordi di una strada: il portiere da una parte, l’attaccante dall’altra. Benji ha il pallone tra i piedi, allora tira; Oliver stoppa e glielo restituisce facendolo passare sotto un bus che sta passando in quel momento. Non ci vuole molto a entusiasmare un ragazzino. La prima puntata è stata sufficiente per creare il mito del cartone. In Fininvest non ci credevano neanche tanto, lo avevano mandato in onda a luglio per provarlo. Non è finito più. Le centoventotto puntate della prima e della seconda serie sono andate avanti in eterno, un rullo continuo. La Newppy, il S. Francis, la Newteam, poi la Muppet e tutte le altre squadre, fino alla Nazionale, al Mondiale giovanile. Milioni di telespettatori in tutto il mondo. Milioni di lettori, anche. Perché il cartone animato nasce da un fumetto. Uscì per la prima volta nel 1981 in Giappone, con il titolo Capitan Tsubasa. Che poi sarebbe Holly. Allora il calcio a Tokyo neppure esisteva. Dodici anni dopo ecco la prima J-League, il campionato professionistico nipponico. Capitan Tsubasa vendeva sei milioni di copie a numero. Era la chiave del pallone: il figlio di una piccola cittadina, l’anima pulita, capace di amicizie sincere, di sentimentalismo strappalacrime. I sociologi si misero a studiare il fenomeno per capire come e perché un fumetto e un cartone animato potessero cambiare le abitudini di un popolo. Ingenuità e tenerezza, furono le risposte. All’inizio degli anni Novanta di questo aveva bisogno la gente. Holly era sempre allegro, ottimista, positivo. Hidetoshi Nakata, l’ha detto tante volte. “Senza quel manga io avrei scelto un altro sport”. Tutto torna: se Hide è diventato il calciatore più importante della storia del Giappone, vuol dire che il calcio è diventato fenomeno di massa grazie a Holly. E come nel cartone l’obiettivo dei protagonisti era arrivare in Europa, ecco che nella realtà i figli di quegli eroi immaginari hanno realizzato quelli che sembravano solo sogni di carta. Nakata, allora. Anzi prima, c’era stato Kazu Miura, portato a Genova dal presidente Spinelli. Qualche tempo fa la Gazzetta dello Sport l’ha ricordato così: “Giugno del 1994, l’anno del Mondiale negli Stato Uniti. Arriva un flash da Tokyo: ‘L’attaccante giapponese Kazuyoshi Miura al Genoa’”. “E chi Kazu è?”, chiesero i più. In realtà la notizia di mercato celava una geniale manovra, che giusto a Genova potevano azzardare. Per la prima volta una società di calcio avrebbe guadagnato tanti soldi per comprare un giocatore. Guadagnato, non speso, avete letto bene. Il rovesciamento della prassi. Miura arrivò dal Verdy in prestito gratuito, con ingaggio miliardario garantito da contratti pubblicitari. Contestualmente il Genoa venne sponsorizzato da un nippo-colosso dell’hi-fi al prezzo di 4 miliardi e mezzo di lire. La Fuji Tv ottenne i diritti delle partite per un miliardo abbondante. “Belandi – esclamò Aldo Spinelli, presidente rossoblù –, senza Kazu ‘ste palanche non le avremmo mai viste”. Una grande domanda, però, incombeva: l’allenatore Franco Scoglio, detto il Professore, avrebbe schierato Miura come titolare?”. Non lo fece mai, anche se Miura regalò a lui e a più di mezza Genova il gol più importante dell’anno, quello nel derby con la Samp.
Kazu è stato una meteora. Nakata no. E’ con Hidetoshi che è cambiato tutto. Il Giappone è diventato un fenomeno pallonaro, s’è trasformato persino in una mania collettiva, in una moda generale. I calciatori come nuove star, la Nazionale come collante di un paese che non ha bisogno di sentirsi Nazione, ma che ascolta l’inno e s’immedesima in ognuno dei ragazzi che indossano la maglia blu con le rifiniture bianche e rosse. Il Giappone è cresciuto e l’abbiamo visto ai Mondiali in Sudafrica. Ha perso una maratona contro il Paraguay agli ottavi di finale. Ha perso bene, con i giornali che il giorno dopo si esaltavano così: “Questa esperienza e questa avventura saranno sangue e muscoli del calcio nipponico del futuro”. Impazziti i media, impazzita la gente che ha cominciato a chiamare i calciatori Blue Samurai. Il premier Naoto Ka ha elogiato pubblicamente la squadra, nonostante la sconfitta: “La nazionale del Giappone, i cui giocatori e preparatori sono stati saldamente uniti sotto le direttive dell’allenatore Takeshi Okada (poi licenziato) – ha scritto il premier in una dichiarazione – ha mostrato al resto del mondo la vera forza dei calciatori nipponici. Con sincerità esprimo il mio più profondo apprezzamento per il duro lavoro svolto”.
La politica, poi la tv. I grandi network nazionali hanno dedicato al calcio molto più spazio di quanto ogni singolo giapponese potesse immaginare fino a pochi anni fa. La diretta televisiva della partita contro il Paraguay, trasmessa un martedì notte alle 11 di sera, segnò uno share del 54,1 per cento nella grande area di Tokyo, che ha più di 35 milioni di persone, con un record di punta massima del 64,9 per cento. Dati confermati e superati durante la coppa d’Asia di qualche mese fa. Il Giappone guidato da Alberto Zaccheroni ha vinto: Honda, Ono, Nagatomo e gli altri giocatori sono diventati i nuovi idoli nazionali.
Adesso uno di loro è nell’Inter. Uno di loro è nel cuore del pallone che conta. E’ la nuova era, appena cominciata. Un traguardo raggiunto e una partenza. Si trascinano dietro un entusiasmo che non è comprensibile per noi che ci siamo abituati a essere sempre al centro del mondo. Per loro è una novità. Per loro è bellissimo. Nagatomo è un orgoglio: vale altre ore di diretta televisiva, vale dieci scuole di calcio che aprono ogni giorno in tutto il territorio nazionale, vale l’aver rosicchiato consenso e popolarità al baseball e al sumo. Il calcio in Giappone è quasi sport nazionale, ora. Il calcio è successo, senza più trombette e senza più vergogna di sentirsi inferiori. Holly e Benji vanno ancora in onda, capitan Tsubasa è ancora in edicola, Nakata non c’è più, ma c’è Nagatomo. Basta lui, poi arriveranno gli altri. Con le prugne salate e tutto il resto.