Marco Ferrante, Il Sole 24 Ore 20/3/2011, 20 marzo 2011
LA FINANZA RINNOVA LE LETTURE - A
prescindere da Gordon Gekko – icona pop del raider cinico, insensibile e vorace – la letteratura ha sempre assegnato una parte luciferina alla finanza e ai suoi uomini. Nel provvidenziale impianto del Conte di Montecristo, il banchiere Danglars è il cattivo tra i cattivi, a cui Dantes per vendicarsi procura la bancarotta. Centoquarant’anni dopo, Tom Wolfe, già geniale inventore dello chic-radicale, ne Il falo delle vanità, punisce il ricchissimo trader Sherman McCoy (con doveroso duplex in Park Avenue) facendogli perdere – in seguito a uno scandalo – vita, sostanze e privilegi di Signore dell’Universo.
Lo stereotipo del finanziere cinico nella trasposizione letteraria, ha un suo rovescio nella relazione tra banchieri e letteratura: dai trecentomila volumi (attuali) della biblioteca creata da Aby Warburg (o tra i banchieri americani quella di Morgan, che di libri però sapeva poco), fino alla complessità di figure di uomini a più dimensioni, finanzieri nel pieno esercizio del potere e intellettuali.
L’archetipo italiano di questa categoria è stato Raffaele Mattioli, capo della Banca Commerciale italiana per 40 anni. In lui convissero alla pari l’elemento storico-letterario e quello economico-politico, in una dimensione di cultura generalista, oggi difficilmente replicabile. Grande fascino personale, fortuna terrena, capacità di leadership, l’aneddotica su Mattioli è ricchissima. Qui solo piccoli cenni. Compra la storica editrice Ricciardi di Napoli, legata a Croce (autore fondativo di quella generazione), e stampa una collana di classici, dal 1200 in avanti. A Togliatti che gli chiede che senso abbia la collana, dice: «Ho creato un muro. Finché voi non avrete digerito i libri di questo muro, non potrete fare neppure un saltino così». Cioè, secondo l’interpretazione di una persona che lo ha studiato, Sandro Gerbi: se voi comunisti volete candidarvi alla guida del paese, avete bisogno di una base storico-letteraria. Tendente alla dimensione dell’uomo completo, in un’intervista nel ’72, racconta le sue visite alla chiesa romana di Santa Maria della Pace, dove – lui "miscredente", dice di sé – fa una capatina per chiarirsi le idee davanti a un certo affresco di Raffaello. Sottotesto, il potere è solitudine. Amicizie variegate, da Mattei a Gadda, da Piero Sraffa a Montale da Nelson Rockfeller alla Anna Bonomi Bolchini, fu il creatore del fenomeno Comit, portatore di cultura generalista e di un contributo innovativo alla classe dirigente italiana, per i rapporti che intorno alla banca si consolidarono: Malagodi e La Malfa, Cuccia (e dunque attraverso la scuola derivata di Mediobanca, Vincenzo Maranghi), Francesco Cingano, Adolfo Tino e suo nipote Maccanico.
La Comit fu un’eccezione (solo l’Olivetti di Adriano avrebbe avuto una capacità di fascinazione assimilabile, ancorché in modo diverso). Per esempio, al Credito Italiano, tra le due guerre più che il management, contarono i battaglieri azionisti, Agnelli, Pirelli, Feltrinelli, e Gualino che a un certo punto la scalò, raider finanziario spregiudicato e – lui sì – eclettico e letterario.
Un’altra filiera di cultura generalista è stata quella della Banca d’Italia. Da Einaudi a Baffi al normalista Ciampi, ad Antonio Fazio, cattolico e tomista – testimoni rammentano le conversazioni con Cuccia su San Tommaso – e con un gusto quasi iniziatico per le parole (per esempio l’uso di un molto spiazzante "parresìa" nelle considerazioni finali del 1999).
Di quella generazione culturale, al vertice delle banche italiane è rimasto Giovanni Bazoli, il più articolato dei nostri banchieri. Formazione giuridica, diritto pubblico, visione della banca di mercato al servizio del paese, cattolico liberale, famiglia che è un pezzo di storia del Partito popolare italiano, vicino a Montini, amico personale di Andreatta e di Prodi, protagonista con Guzzetti, Geronzi, Profumo e Salza del consolidamento bancario, appassionato di studi biblici e molto legato alla bresciana Morcelliana, editrice fondata dal futuro Paolo VI, e che si occupa di filosofia, teologia e storia delle religioni, (con cui ha pubblicato due brevi saggi), e all’altra editrice bresciana La scuola.
L’indice di quel tipo di classe dirigente finanziaria si completa, con un gruppo vario di figure che arrivano dalla formazione giuridica. Alcuni esempi: dallo specifico della scuola pavese di Guido Rossi (un misto di tecnica dei dossier e di visione politica e storico-letteraria), fino a uomini come Piero Schlesinger, che presiedette la Popolare di Milano, Ariberto Mignoli e il suo successore alla cattedra di diritto commerciale alla Bocconi, Piergaetano Marchetti.
Nella generazione successiva cambiano molte cose. Declina il primato della base umanistica, con visione generalista della leadership. Le classi dirigenti economiche che si sono formate a partire dai 70, e cominciano ad affermarsi a partire dagli anni 90, danno un altro ordine di priorità al loro statuto. Al primo posto mettono il fattore internazionale al passo con la globalizzazione incipiente: la formazione universitaria o post (i master, i phd), i rapporti che ne conseguono, e una conoscenza più settoriale (la tecnica finanziaria, l’abilità gestionale diventano i temi del confronto internazionale e il fattore preponderante dell’agire quotidiano, anche perché le regole del gioco sono più vincolanti). Cambia l’approccio con la formazione e con la vecchia dimensione culturale. Dice Piero Celli, che ha lavorato in molte grandi imprese, anche in banca: «Sì, i rapporti internazionali diventano il punto di riferimento. Da qui una conseguenza interessante. Molti dei vertici finanziari tra i quaranta e i sessanta anni (ma si può dire in generale di tutte le aziende) è poco disponibile a scegliere modelli culturali come una volta, perché ritiene di essere protagonista dei cambiamenti pro-mercato in atto, in un certo senso di contribuire con la propria esperienza alla storia che si fa».
Da questo punto di vista, finanzieri e banchieri si propongono come una delle architravi di una nuova élite in formazione, unificata dall’economia, dalla tecnica e in parte anche dai guadagni, e poi separata dall’esperienza culturale soggettiva. Così se guardiamo la generazione successiva, la dimensione culturale è frammentata, esattamente com’è frammentata in generale la formazione di una società ultra complessa come quella post-novecentesca. Troveremo così Corrado Passera – che ha vissuto l’ultima coda dell’esperienza olivettiana – attualizzare l’esperienza del banchiere che lavora sui libri nell’esperimento di editore multimediale insieme a Umberto Eco in Encyclomedia. Troveremo Fabio Gallia, amministratore delegato di Bnl, divoratore di romanzi (da un paio d’anni regala Furore di Steinbeck), da Malhouf alla Yourcenar, perché nel romanzo c’è la conoscenza degli uomini; Matteo Arpe, ex ad di Capitalia, già enfant prodige mediobanchesco, che si appassiona alla sequenza dei numeri primi e ne scrive; Ettore Gotti Tedeschi, presidente dello Ior, già in Mckinsey come Profumo e Passera, cattolico e saggista liberale per Piemme e l’editrice della Bocconi.
Alcuni uomini di banca o di finanza (da Francesco Micheli a Massimo Tosato a Giovanni Gorno Tempini) sono appassionati d’arte contemporanea. L’arte è un paragrafo a parte. La Fondazione Palazzo Strozzi, presieduta da Lorenzo Bini Smaghi, componente del board della Bce, e conoscitore d’arte contemporanea, sta preparando una mostra sul legame tra arte e finanza nella storia, dalla Firenze rinascimentale alla Shangai del XXI secolo. Il senso è: il potere del denaro che si fa perdonare attraverso l’arte, e il connubio d’innovazione tra arte e finanza. Oggi l’arte contemporanea assume una tripla dimensione nella formazione di questa classe dirigente. È un investimento dei banchieri in quanto titolari di banche o le fondazioni bancarie, è un paradigma di tradizione, di grandi collezioni cui affidare un’eredità morale o semplicemente un nome; ed è anche un fattore di identificazione reciproca per un’élite: Gianni Agnelli lo aveva compreso e aveva sistematizzato il ruolo dell’arte nella sua esperienza di mito sociale.
In generale, la frammentazione è visibile anche negli elementi comuni della formazione culturale, non più univoci. Tra gli anni 30 e 50 in Italia c’è una sequenza di riferimenti condivisi, anche se non necessariamente in linea, da Croce a Keynes. Oggi è più difficile individuare fattori comuni, un libro o un autore condivisi. Dice Alberto Giovannini, che è stato ordinario di Finanza ed economia alla Columbia, e allievo di Rudi Dornbush al Mit: «Difficile trovare un fattore unificante. La produzione di testi è enormemente cresciuta ed è cambiato il mondo. La cultura economica e finanziaria degli ultimi quarant’anni è stata dominata da due filoni: in macroeconomia il pensiero di Phelps, Mundell da cui proviene l’ortodossia monetaria e fiscale. In finanza, Eugene Fama e i suoi seguaci hanno invece fondato l’ipotesi dei mercati efficienti che è stato il pilastro della crescita dei mercati finanziari ma che ha anche dimostrato le sue profonde lacune».
In questa riformulazione eterna della questione borghese (perché di questo alla fine si tratta), c’è anche spazio per un lato puramente letterario. Paolo Andrea Mettel, è un finanziere ticinese, appartato, ma con molte relazioni e amicizie. Bibliofilo, è stato amico e sostenitore di Fernanda Pivano, Mario Luzi e Arturo Benedetti Michelangeli. È legato al supersofisticato editore Alberto Tallone, già nei primi anni 50 in rapporti con Mattioli, e nel cui catalogo esiste una specie di sezione metteliana, una ventina di volumi proposti da Mettel: tra gli autori Catullo, Voltaire e il Mazzarino de Il breviario dei politici, in cui torna la solitudine e la fatica del potere.