Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  marzo 25 Venerdì calendario

IN GALERA DAL 2009 MA NON ERA BRIGATISTA

Massimo Papini non aveva niente a che vedere con le Br. Ma perché ciò fosse accertato ha atteso oltre 17 mesi in una cella, in totale isolamento. La sua storia, per via del legame con la brigatista Diana Blefari Melazzi, aveva tenuto banco sui giornali. Eppure, ieri, della notizia della sua assoluzione si faticava a trovare traccia.
Papini fu arrestato il primo giorno di ottobre del 2009 a Castellabate dove era al lavoro su un set, essendo, infatti, un attrezzista cinematografico. A disporre l’arresto furono i pubblici ministeri di Roma Erminio Amelio e Luca Tescaroli che lo accusarono di associazione sovversiva costituita in banda armata. Quell’arresto è l’imbocco di un tunnel dal quale è uscito soltanto l’altro ieri, quando la prima sezione della Corte di Assise di Roma ha fatto cadere tutte le accuse nei suoi confronti e lo ha rimesso immediatamente in libertà.
Da quel giorno di ottobre, però, sono passati oltre 17 mesi che Papini difficilmente potrà dimenticare, anche perché li ha trascorsi in un isolamento pressoché assoluto in una sorta di transito nel carcere di Rebibbia, a Roma, anche per una banale questione, per così dire, burocratica. Già, perché se per i reati di natura eversiva esistono gli istituti ad alta sorveglianza di livello 2, questi però in Italia sono soltanto tre: Alessandria, Carinola e Catanzaro. Ed è proprio quest’ultimo l’istituto che avrebbe dovuto accogliere Papini, anche perché gli altri due sono normalmente utilizzati per i “vecchi” detenuti o per gli anarchici. E, però, il processo a Papini si è svolto a Roma, dove mancano istituti con sezioni dove accogliere i detenuti come lui. Ecco, dunque, che alle restrizioni già dovute per legge se ne sono aggiunte altre del tutto evitabili, consistite, ad esempio, nella mancanza di “socialità” o nel dover fare l’ora d’aria da solo.
In questi mesi, non gli è mai mancato l’appoggio di familiari e amici, i quali su un sito Internet a lui dedicato hanno raccontato quasi minuto per minuto la sua vicenda. Sono gli stessi amici che mercoledì scorso, alla lettura della sentenza, hanno sciolto la tensione in un applauso. Per lui i pm avevano chiesto 6 anni al termine di una lunga requisitoria, durata circa 14 ore. E in quelle 14 ore avevano sostenuto che Papini aveva partecipato al gruppo eversivo che operò sotto varie sigle - tra le quali: Nuclei Comunisti Combattenti e Brigate Rosse per la costruzione del Partito comunista combattente - e della quale facevano parte Diana Blefari Melazzi, Paolo Broccatelli, Nadia Desdemona Lioce, Mario Galesi, Marco Mezzasalma, Laura Proietti, Cinzia Banelli, Roberto Moranti, Simone Beccaccini e Federica Saraceni; questi ultimi tutti condannati per gli omicidi di Marco Biagi e Massimo D’Antona. Papini, invece, secondo l’accusa avrebbe partecipato in posizione defilata e dunque non organica, sin dal 1996.
Gli elementi sui quali era basata l’accusa - tra i quali l’utilizzo di schede telefoniche prepagate o di software di criptazione che l’accusa riteneva assimilabile a quello in uso alle Nuove Brigate Rosse ma che secondo la difesa era invece di uso comune - ruotavano tutti attorno al legame con la Blefari, la quale venne catturata dopo la scoperta di una cantina-deposito delle cosiddette Nuove Brigate Rosse in via Montecuccoli a Roma. La Blefari si uccise impiccandosi nella sua cella il 31 ottobre 2009, pochi giorni dopo la conferma dell’ergastolo per l’omicidio Biagi. E anche un mese esatto dall’arresto di Papini del quale, la stessa Blefari, in quei giorni aveva affermato l’estraneità alle accuse.
«Con l’assoluzione - hanno detto, subito dopo la lettura della sentenza, gli avvocati Caterina Calia e Francesco Romeo, legali di Papini - termina l’atroce supplizio cui Massimo Papini è stato sottoposto durante 18 mesi di detenzione, gran parte dei quali in regime di isolamento. L’assoluzione di oggi è un atto dovuto nei confronti di Massimo Papini sottoposto ad un processo che non si sarebbe mai dovuto celebrare e che si è celebrato solo ed esclusivamente per l’accanimento ingiustificato di investigatori e inquirenti di diversi uffici giudiziari». «Papini - hanno proseguito - è stato incarcerato e processato solo perché è rimasto accanto a una persona, Diana Blefari Melazzi, a cui voleva bene e che ha cercato di far curare viste le terribili condizioni psichiche in cui versava. Questa è stata la sua unica colpa e l’ha pagata durissimamente. L’assoluzione di oggi, finalmente, è il primo risarcimento che ottiene dalla giustizia della nostra Repubblica».