Raffaele Masto, Vanity n.12 23/3/2011, 23 marzo 2011
I FIORI DEL MALE
Oggi è una bella giornata per Vladimir: una festa così, a lui, non l’avevano mai fatta. Per i suoi 4 anni ci sono i clown, i regali, una torta con le candeline. È uno dei miracoli del dottor Yuri Orlov, primario del reparto pediatrico, al quarto piano dell’Istituto di Neurochirurgia di Kiev. La capitale dell’Ucraina, 90 chilometri a Sud di Chernobyl, dove il 26 aprile del 1986, 25 anni fa, esplose il reattore numero 4 della centrale nucleare Lenin. Impossibile non pensare a quella tragedia dopo il terremoto in Giappone, dove la nube radioattiva fuoriuscita dalla centrale di Fukushima angoscia il Paese. Quindi, eccoci qui, dove manca tutto.
La festa per Vladimir l’hanno preparata le mamme degli altri piccoli pazienti, una quarantina, che, come quella del festeggiato, inseguono il più grande dei sogni: una guarigione. Difficilissima. E per difendere questo sogno si sono alleate, organizzando a turno i giochi dei bambini, prendendosi cura dei figli delle altre, così che ciascuna abbia qualche ora di libertà, si possa concedere un piccolo svago, possa uscire a fare un po’ di spesa, magari a comprare un giocattolo. Ammesso che i soldi bastino: nell’Ucraina di oggi, devastata dalla crisi economica seguita al crollo dell’Urss (il Paese si è staccato da Mosca nel 1991), chi può va a curarsi all’estero. Chi non può, come le mamme del quarto piano, deve pagare tutto: medicine, assistenza, perfino le siringhe, le garze, le flebo. Per molti significa mettere sul piatto tutto ciò che si possiede, a volte vendere la casa. E il peso più grande finiscono quasi sempre per portarlo le donne, soprattutto quelle lasciate sole dai mariti davanti a problemi tanto drammatici.
A Vladimir, che oggi compie 4 anni, hanno dovuto amputare una gamba: se l’erano mangiata le metastasi. E sulla testa che la sua mamma continua a baciare non crescono più i capelli: se li è portati via la chemioterapia.
A Kiev il quarto piano, il reparto del dottor Yuri Orlov, è conosciuto come quello dei «figli di Chernobyl», i ricoverati nati da madri che qui, 25 anni fa, erano bambine, neonate o nemmeno nate. Ma appena ci riceve nel suo ufficio, questo settantenne magro precisa che il legame tra la catastrofe e la malattia di questi bambini è «poco più di una diceria, priva di valore medico e scientifico». O meglio: «Per stabilire una correlazione tra l’incidente nucleare di 25 anni fa e questi tumori ci vorrebbero ricerche serie, ci vorrebbe del denaro. E noi non ne abbiamo».
Ma sebbene i dati sulle conseguenze del disastro siano frammentari e controversi, più di uno studio internazionale indipendente dice che tra i bambini della regione di Chernobyl i tumori alla tiroide sono aumentati di 10 volte, i problemi psichici di 10-15. Nella vicina Bielorussia, dal 2000 al 2010, il numero di tumori e malformazioni congenite tra i bambini è raddoppiato. E anche il dottor Orlov ammette che, basandosi solo sulla sua esperienza, ha visto triplicare i casi di bambini colpiti da tumore al cervello nei cinque anni successivi all’esplosione. «Dopo dieci anni la situazione si è stabilizzata, ma l’incidenza dei casi, rispetto al 1985, risulta comunque doppia».
È ora della visita di Mikhail, 5 anni, che non smette più di piangere: è bloccato a letto da una paralisi temporanea dovuta a un cancro al cervello che comprime i centri nervosi. La massa tumorale è troppo grande per essere operata: serve un ulteriore ciclo di chemioterapia per ridurla e consentire così l’intervento chirurgico. Il farmaco però non è ancora arrivato, anche se la famiglia si è svenata per acquistarlo all’estero.
I soldi mancano. Colpa della crisi economica, certo, ma anche della politica. «Se si stabilisse una relazione tra l’incidente di Chernobyl e la malattia di questi bambini, l’Ucraina avrebbe diritto a un indennizzo economico per i danni delle radiazioni, e queste famiglie potrebbero ricevere assistenza gratuita», spiega Damiano Rizzi, presidente di Soleterre, una Ong italiana che sostiene il lavoro del dottor Orlov finanziando materiale chirurgico e diagnostico e formando il personale sanitario sul posto. «Ma tutta la questione è stata regolata a livello politico in modo da neutralizzare il potenziale contrasto tra Mosca (che dovrebbe pagare, in quanto ex capitale dell’Urss e proprietaria di quella centrale) e l’attuale Ucraina, ex Repubblica sovietica».
Il dottor Orlov ricorda bene i giorni dell’incidente: era già un medico. Pensa ai festeggiamenti a Kiev per il 1° maggio 1986: la parata per le strade, le pressioni del regime per parteciparvi, le famiglie che portavano i bambini. Tutto questo mentre le particelle radioattive contaminavano il terreno, i parchi, le strade, la frutta e la verdura, proprio come sta accadendo oggi, in misura certo assai minore, in Giappone, dove però ai residenti è stato chiesto di limitare al minimo l’esposizione. «E invece qui accadde l’opposto. Una follia: avrebbero dovuto sospendere la parata, dare indicazione di restare chiusi in casa, mettere al bando alcuni prodotti ortofrutticoli. Non fecero niente. Io sapevo della gravità dell’incidente, che il regime minimizzava, e guardavo impotente quei bambini e i loro genitori immaginando che il tempo ci avrebbe puniti tutti. Non mi sbagliavo. Allora eravamo una grande potenza, oggi siamo un Paese che non ha soldi, e gli stanziamenti per la salute pubblica sono inesistenti».
Sono quasi le 8 del mattino: è l’ora di andare in sala operatoria. Orlov deve percorrere tutto il corridoio che attraversa il reparto. Quando passa, le mamme alzano gli occhi verso di lui. Anna è la veterana. Il suo bambino, Vassilij, ha 9 anni ed è malato da 5. Per tre volte il tumore è stato sconfitto, ma poi è sempre tornato, implacabile. Lei non ha mollato. Le altre mamme cercano di staccarla dal letto per farle mangiare qualcosa. La corsia ospita il doppio delle persone che potrebbe contenere: «Le mamme e i papà, che spesso arrivano da lontano», dice Orlov, «vogliono dormire con i figli, nello stesso letto». Certo, questo crea problemi di igiene: quasi tutti i bambini sono debilitati dalla chemioterapia e quindi soggetti a infezioni che possono anche essere letali. «Ma che cosa si può fare? Mandarli via? E dove? Non hanno un posto dove andare, né denaro per pagarsi un alloggio».