Zornitza Kratchmarova, Economy 24/3/2011, 24 marzo 2011
LA GRANDE CORSA ALL‘URANIO
Bocce ferme, o quasi. La crisi nucleare giapponese potrebbe modificare le dinamiche sui mercati energetici mondiali. Con ripercussioni dirette sull’uranio, almeno nel breve-medio termine. Anche se a poco meno di due settimane dal terremoto di magnitudo 8.9 che ha messo in ginocchio la centrale di Fukushima-Daiichi, facendo temere il peggio, le quotazioni della materia prima tornano a salire. Sfondando quota 114 dollari al chilo con un recupero di 17 dollari, e più, in pochi giorni (chiusura al 21 marzo, Solactive Global Uranium Index). Niente male, se si considera che il prezzo medio di riferimento su base annua è di 130-135 dollari al chilo. Come dire: la reazione emotiva al dramma giapponese è stata foltissima, ma lo stop atomico non ci sarà.
E a trainarne il rinascimento saranno soprattutto i Paesi dell’Estremo Oriente. Cina in testa. Perché solo con l’atomo Pechino può ridurre le emissioni di anidride carbonica senza sacrificare la crescita economica. E lo farà. Espandendo di sette volte la propria capacità nucleare entro il 2020. Il viceministro dell’Ambiente Zhang Lijun è stato chiaro su questo punto: «La Cina non cambierà la sua determinazione a sviluppare la potenza nucleare» ha dichiarato, snocciolando i dati circa l’impegno di riduzione della CO2: un taglio del 40% almeno rispetto ai livelli del 2005 per unità di Pil entro il 2020.
E Davide Tabarelli, presidente della società di ricerca Nomisma Energia, è categorico: «II nucleare non è morto» dice.«È un lusso che il mondo non può permettersi». I «signori dell’uranio», ossia coloro che hanno in mano la quasi totalità del mercato del combustibile necessario a fare funzionare i 455 reattori in uso nel mondo, lo sanno bene. Sono in quattro e controllano quasi l’85% delle forniture attraverso contratti bilaterali di durata pluriennale. Il resto viaggia sul mercato spot. Si tratta dei francesi di Areva, con oltre il 30% delle quote, dei nippocanadesi di Toshiba-Westinghouse, di G.N.F. (una joint venture tra la statunitense General Electric e le giapponesi Hitachi e Toshiba) e dei russi di Atomenergoprom.
Sono loro che, acquistata la materia prima, la «arricchiscono» fino a farla diventare combustibile. «Senza quel processo l’uranio resterebbe quello che è: un metallo pesante, usato come contrappeso nelle code degli aerei, negli elicotteri, nelle chiglie delle navi e, persino, nelle mazze da golf», fanno sapere dal dipartimento di Energia del Politecnico di Milano.
A conti fatti, insomma, senza quei «magnifici 4» l’industria dell’atomo non ci sarebbe. E sì che le riserve di uranio sono distribuite in tutto il pianeta, o quasi. «Oggi è il Kazakistan il primo Paese produttore al mondo con una quota 2010 del 27,6% del totale della domanda» riprende Tabarelli. «Seguono il Canada e l’Australia, rispettivamente con il 20% e il 15,7%». Persino l’Italia avrebbe la sua riserva. È in Val Seriana, a pochi passi da Bergamo, con una capacità stimata di almeno 870 mila tonnellate di materiale da estrarre. Ma niente paura: quel giacimento è destinato a rimanere inesplorato. A deciderlo è stata la Regione Lombardia chiamata a pronunciarsi a metà del Duemila sulla richiesta di sfruttamento da parte della società australiana Metex Resources. Il decreto siglato il 15 dicembre 2005, oltre a respingere al mittente l’istanza della società estrattiva di West Perth, nello stato di Western Australia, dove peraltro si trova la più grande miniera di uranio al mondo, la Olympic Dam Mine, ha stabilito che eventuali future richieste riceveranno direttamente un parere negativo. «Poco male per l’industria mondiale» chiosa Tabarelli. «È stato calcolato che le riserve di uranio ai livelli attuali di consumo bastano per 300 anni e forse più».
Dipende tutto da quanto si è disposti a spendere per l’estrazione. Al prezzo base di 40 dollari al chilo e, dunque, sfruttando le sole miniere conosciute, le cosiddette zone RaR (con reasonably assured resources, ossia con risorse ragionevolmente sicure), esiste materiale sufficiente a garantire la vita utile di tutti i reattori per 50 anni almeno. «Ma l’uranio è presente persino nell’acqua del mare con una disponibilità valutata in 4,6 miliardi di tonnellate» dicono dal Politecnico di Milano, specificando che in Giappone è stata messa a punto una tecnologia sperimentale in grado di estrarlo seppure a costi altissimi: 300 dollari al chilo. «Quel che è certo è che, a differenza delle altre fonti fossili utilizzate per la produzione di energia elettrica, l’uranio ha una incidenza sul costo di generazione assai limitato: tra il 5 e il 10%, non di più», prosegue Tabarelli. In altre parole: anche in caso di raddoppio del prezzo dell’uranio la variazione al rialzo della bolletta elettrica sarebbe marginale. «Non è poco, se si pensa che il prezzo del carbone incide per il 70% sui costi finali».
Altra questione da non sottovalutare: una tonnellata di uranio ha una resa energetica pari a 10-15 mila tonnellate di petrolio. Ne basta davvero poco per produrre molto, insomma. E, in futuro, semmai le centrali di quarta generazione verranno realizzate, ne basterà ancora meno. E chi teme che l’uranio possa finire nelle «mani sbagliate» e agita lo spettro delle amicizie pericolose tra Stati fornitori e Stati in cerca di uranio a scopi bellici, a cominciare dall’Iran, per Tabarelli deve stare tranquillo: «L’indiziato numero uno è il Kazakistan, ma quel Paese non ha alcun interesse a compromettere i propri interessi economici e in definitiva il proprio futuro».