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 2011  marzo 24 Giovedì calendario

ECCO IL MADE IN ITALY DELLE ARMI IN LIBIA

È l’ora delle armi, adesso, a Tripoli e din­torni. Quelle armi che rappresentano un’altra chiave di lettura delle mosse di questi giorni sullo scacchiere internazionale. Delle mire francesi su petrolio e gas della Libia molti hanno detto. Ma anche dietro all’asse i­talo- russo che avrebbe frenato nelle ultime ore gli ’ardori’ di Sarkozy si può scorgere, in con­troluce, una ragione economica: oltre al­la vicinanza storica con Gheddafi, la Russia di Medvedev – che alle fonti ener­getiche è meno inte­ressata – è infatti la vittima più illustre del nuovo embargo, il Paese che più ha da perdere per il blocco dei commerci. Con il regime del rais, Mo­sca aveva in piedi commesse militari pluriennali per almeno 4 miliardi di dollari, ol­tre la metà dei quasi 10 relativi agli affari russi nell’intera area che va dal Nord Africa al Medio Oriente. Così dichiarava con rammarico il 3 marzo Sergei Tchemezov, il presidente dell’a­zienda pubblica Rostekhnologui, legata a Ro­soboronexport, la società statale che gestisce l’ export bellico. Il quadruplo del miliardo (sem­pre su più anni) che vedrebbero sfumare inve­ce le imprese italiane. Il paradosso del conflitto libico è anche questo: nella fase finale del precedente embargo verso Tripoli, durato dal 1988 (anno dell’attentato con­tro il jumbo della PanAm caduto a Lockerbie) al 2003, molti Stati hanno cercato di riallacciare rapporti con Gheddafi, poi dal 2004 hanno ri­preso a rifornirlo di armi. Così, dal 2008 in poi, il valore delle spese militari libiche ha superato la soglia del miliardo di dollari. E in questo qua­dro l’Italia, pur destinando alla Libia solo il 2% del proprio export militare, ha giocato un ruo­lo di primo piano: il data-base del Sipri (l’istitu­to svedese che monitora armi e disarmo) e i rap­porti della Ue sulle esportazioni militari certi­ficano che nel biennio 2008/09 l’Italia ha aut­o­È rizzato operazioni pari a più di un terzo (il 34,5%, per più di 205 milioni) di tutte quelle rilasciate verso la Libia nell’ambito Ue, pari in tutto a cir­ca 595 milioni di euro. E dopo di noi, ma a de­bita distanza (143 milioni) c’era proprio la Fran­cia, che per giunta proprio nel 2008 ha subìto il sorpasso italiano. Cifre messe nero su bianco, in atti ufficiali e rapporti del governo italiano, an­che se il ministro Ignazio La Russa il 25 febbraio affer­mava che «la Difesa non ha dato neanche un coltellino» alla Libia.

Certo, in effetti il grosso ri­guarda mezzi per usi civili o per la sicurezza in gene­rale. Come i 10 elicotteri AW-109E per il controllo di coste e frontiere venduti dal 2006 al 2009 da Agusta We­stlands, del gruppo Fin­meccanica (valore: circa 80 milioni), o i 20 velivoli fra cui gli aerei AW-119K, adat­ti a missioni mediche di e­mergenza, e i bimotori AW­ 139. O ancora gli Atr­ 42Mp dell’Alenia Aeronau­tica per il pattugliamento marittimo venduti nel 2008, e le 6 motovedette consegnate alla Marina li­bica per controllare il Me­diterraneo e impedire gli sbarchi in Italia.

Il Rapporto della presidenza del Consiglio sui commerci dei materiali d’armamento, però, in­dica fra le 9 autorizzazioni concesse nel 2009 per 111,79 milioni (vedi box), la categoria «004», cioè «bombe, siluri, razzi, missili e accessori», vo­ce che peraltro si ritrova anche per il 2008. Per non dire del caso, ricostruito dalla Rete italiana per il disarmo e dalla Tavola della pace, della ’strana’ autorizzazione per il cospicuo impor­to di 79 milioni addebitata nei rapporti Ue al piccolo stato di Malta e che in realtà celerebbe la fornitura da parte di un’azienda italiana di ol­tre 11mila armi leggere, fra pistole, carabine e fucili, recapitate agli uomini del rais (in realtà la commessa sarebbe stata di 7,9 milioni, ma un banale errore di trascrizione al porto maltese a­vrebbe spostato la virgola). Una storia, quella delle forniture belliche ita­liane alla Libia, che «ha una tradizione – ricor­da Maurizio Simoncelli, dell’Istituto Archivio Disarmo – se si pensa che negli anni Settanta, in piena ’guerra fredda’ e coi consiglieri mili­tari russi a Tripoli, riuscimmo a vendere a Ghed­dafi una serie di carri armati Leopard, della O­to Melara di La Spezia, in dotazione anche alla Nato; una fornitura che fu a lungo negata e più tardi ammessa dal ministro della Difesa Lago­rio ». Peraltro, come per la Russia, l’Italia colti­vava prospettive ancora migliori per i traffici militari. In particolare, era la Finmeccanica che puntava tramite la diplomazia di Tripoli ad a­vere «un partner per la futura crescita del grup­po in Africa e nel Medio Oriente», come affer­mava a luglio 2009 l’ad Pier Francesco Guar­guaglini. Un’area che rappresenta un autentico tesoro per i fautori del traffico d’armi, specie nell’area del Golfo, con una domanda sempre in crescita e clienti che non badano troppo al prezzo. Come sanno bene gli Usa che, secondo i dati Sipri, assorbono il 54% del commercio mi­litare di un’area che vede la sola Arabia Saudita spendere (nel 2010) per la difesa la bellezza di 19 miliardi di dollari. Anche qui con il parados­so che nel 2010 gli Usa hanno venduto a Riad ben 84 aerei F-15, ma prima ne hanno dovuto limitare le capacità per non irritare Israele che altrimenti poteva sentirsi minacciata. L’impor­tante è vendere.