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 2011  marzo 24 Giovedì calendario

Difendere le nostre imprese? No, grazie - L’acquisto da parte del gigante france­se Lactalis del 29 per cento del capi­tal­e sociale di Par­malat, una delle poche multinazionali del no­stro Paese, ha fatto riemergere la questione della tutela dei «campioni nazionali»

Difendere le nostre imprese? No, grazie - L’acquisto da parte del gigante france­se Lactalis del 29 per cento del capi­tal­e sociale di Par­malat, una delle poche multinazionali del no­stro Paese, ha fatto riemergere la questione della tutela dei «campioni nazionali». E il gover­no ha varato un decreto legge (per lo spostamento dei termini di convocazione delle assem­blee delle società per azioni) che sembra possa servire per da­re modo a una eventuale corda­t­a italiana di preparare una con­tromossa per il controllo di Par­malat. Nel testo del decreto non si fa menzione della difesa del­l’interesse nazionale, ma il te­ma potrebbe essere sollevato con emendamenti in parlamen­to. Dunque è interessante fare una analisi di carattere teorico e storico delle posizioni che, in questo campo, si sono formate in Europa e negli altri Paesi indu­striali. Al riguardo, ci sono due posizioni: quella dei mercantili­­sti, sviluppata soprattutto nei se­coli dal Seicento alla prima par­te dell’Ottocento; e quella della scuola dell’economia di merca­to. Quest’ultima,a sua volta,si bi­partisce nella teoria dell’econo­mia di laissez­faire , che Tremon­ti chiama anche mercatismo e Ropke denomina «capitalismo storico»;e quella dell’economia di mercato di concorrenza, con regole del gioco che ne garanti­scono il funzionamento. La dif­ferenza fra queste due concezio­ni, per quanto ci interessa, sta nella questione dei grandi grup­pi, sul rischio che possano diven­tare dei monopoli. Per la teoria mercantilista, che in Francia eb­be particola­re corso con la politi­ca di Gian Battista Colbert super ministro di Luigi XIV, il Re sole, nella seconda metà del XVII,l’in­teresse nazionale comporta che si debba favorire la crescita e l’espansione internazionale del­le imprese nazionali e ostacola­re le straniere con varie misure, come le esclusive per svolgere determinate attività, i dazi pro­tettivi, le sovvenzioni. La Rivolu­zione francese ha generato, in Francia, il libero scambio, ma non ha distrutto la tradizione colbertista dell’interesse nazio­nale. E l’avvento di Napoleone I e Napoleone III ha comportato nuove ondate di nazionalismo, che si sono tradotte nello svilup­po di grandi imprese pubbliche. Il colbertismo in Francia non è caduto neanche quando si è at­tuato il Mercato comune euro­peo, nato da un compromesso fra gli Stati che volevano il libero scambio e il libero movimento dei capitali e la Francia stessa che esigeva la protezione del­l’agricoltura e un speciale regi­me dirigista per il carbone, l’ac­ciaio (questo gradito anche alla Germania)e l’energia nucleare. Ed è resistito anche dopo l’attua­zione del «grande mercato euro­peo » approvato a metà degli an­ni Ottanta, a seguito del vertice di Milano, presieduto da Craxi e dopo l’Unione economica e mo­netaria che esige il libero movi­mento dei capitali in tutta l’Euro­zona. La protezione dell’interesse nazionale da parte di Parigi si è realizzata in tre modi. Innanzi­tutto la Francia, a differenza del­­l’Italia, ha mantenuto presso­ché tutte le sue imprese pubbli­che e le ha anzi potenziate: non solo le tradizionali Ferrovie e Po­ste, ma anche Edf nel settore del­­l’energia, e Telecom France. E Air France, Airbus, Renault e al­tro ancora, tramite quote di mi­noranza che danno un control­lo di fatto. Inoltre la Caisse de De­pot et Consignation, una banca statale analoga alla nostra Cas­sa Depositi e Prestiti, possiede azioni di società industriali va­rie, come Danone e Air Corsica e intreccia le sue attività con le banche private. Ad essa si affian­ca Credit Agricole. Ufficialmen­te una enorme banca di credito cooperativo, in realtà una gigan­tesca banca di affari. Ed ecco infi­ne la legge francese per la difesa delle imprese di interesse nazio­nale, che vuole impedire le offer­te pubbliche di acquisto nei ri­guardi delle società francesi di vari settori, considerati di pub­blico interesse compreso quello agro alimentare. Una eccezione che l’Europa tollera perché la Francia è «più eguale degli al­tri ». Negli Stati Uniti invece si è dif­fusa la teoria del libero scambio, senza protezioni per le grandi imprese. Successivamente si so­no avute le leggi antitrust, che hanno spinto le multinazionali a ramificarsi soprattutto all’este­ro dove, grazie alla legislazione tributaria federale, hanno an­che vantaggi fiscali. Per recipro­cità e per dottrina economica «mercatista» l’investimento estero negli Usa è libero e benve­nuto. Esiste però una legge che con­sente di bloccare gli acquisti di imprese statunitensi da parte di imprese estere se in gioco c’è la sicurezza nazionale, intesa nel senso politico-militare del ter­mine. Questa è una nozione che, seguendo la teoria mercati­sta, si potrebbe applicare in Ita­lia all’Eni o all’Enel, dato il loro ruolo strategico nella nostra au­tonomia energetica, non certo al settore alimentare. Anche se­guendo la variante di una econo­mia di mercato di concorrenza, con regole del gioco, che io pro­pugno sulla base della lezione di Einaudi e di Ropke, si può ac­cettare questa eccezione. E an­che aggiungere il principio per cui non si può ammettere un po­tere dominante di mercato del­le grandi imprese. La tesi per cui l’Italia potrebbe dotarsi, in generale, di una legi­slazione in materia simile a quel­la francese, non è accettabile. Potrebbe essere ammissibile so­lo con la limitazione della reci­procità, allo scopo di indurre i francesi ad abolire la loro. Ciò in analogia con quello che si fa nel caso delle sovvenzioni con i da­zi antidumping, per scoraggiare il protezionismo e dar luogo a re­ciproco libero scambio. Ma una legge di tipo francese è efficace solo contro l’Opa, non contro le quote di controllo inferiori al 30%, efficaci, quando il resto del­la proprietà è frazionato, come in Parmalat. La vera soluzione sta nella finanza. In Italia la sepa­r­azione legislativa fra banca e in­dustria, derivata dalla crisi ban­caria degli anni Trenta, è durata sino a qualche anno fa. E le no­str­e grandi banche non sono an­cora abituate a sorreggere le im­prese industriali, come in Fran­cia o in Germania. Lo sviluppo di grandi imprese italiane è necessario per colma­re il vuoto che si è creato con le privatizzazioni attuate all’epo­ca della fine della Prima repub­b­lica spezzettando le grandi im­prese pubbliche, vedasi la per­versa politica di coriandolizzare del gruppo Ferruzzi-Montedi­son, con i patti sindacali nazio­nali rigidi. Ma dovrebbe esserci un impegno del sistema banca­rio, su basi economiche solide, con contratti di lavoro secondo il modello Marchionne.