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 2011  marzo 14 Lunedì calendario

ORE ROMANE

Tutti sono convinti che Aleksandr Deineka, il pittore sovietico che il Palazzo delle Esposizioni celebra nella grande mostra aperta fino al 1° maggio, fosse già entrato da vivo, almeno una volta, nel museo di via Nazionale. Scomparso nel 1969, Deineka aveva infatti trascorso a Roma una ventina di giorni, dal 12 aprile al 3 maggio del 1935, al ritorno da un soggiorno di sei mesi negli Stati Uniti e da un viaggio in Francia. In quegli stessi giorni, al Palaexpo era in corso la seconda Quadriennale che, con settecento espositori, occupava tutti gli spazi dell’ edificio. Organizzata da Cipriano Efisio Oppo e inaugurata in febbraio, aveva consacrato pittori come Scipione, promosso l’ affermazione a livello nazionale di Campigli e Rosai, premiato Severini e Marini, battezzato l’ esordio degli astratti, dedicato la grande sala ai futuristi e altre sale alle personali di Fausto Pirandello, Martini, Messina, de Pisis. «Quale occasione migliore per conoscere l’ arte contemporanea italiana? È impensabile che Deineka non abbia visitato l’ esposizione», si chiede Matteo Lafranconi, che con Elena Voronovic e Irina Vakar ha curato la mostra sul maestro russo. «Ho sempre sentito nei quadri di Deineka certi echi della pittura italiana di quegli anni», aggiunge Emmanuele Emanuele, presidente dell’ azienda Palaexpo, che scoprì l’ artista durante un viaggio in Unione Sovietica a metà degli anni Sessanta e da allora sognava di esporlo in Italia. Poi, all’ inaugurazione di «Aleksandr Deineka. Il maestro sovietico della modernità», è arrivata Irina Ostarkova, la studiosa che ha passato al setaccio l’ archivio del pittore, rimasto chiuso per decenni dopo la sua morte. A margine della conferenza, Irina ha aperto una borsona di cuoio e ha estratto i documenti del soggiorno romano di Deineka. Ci ha fatto vedere la ricevuta originale del conto dell’ albergo, l’ Hotel di Londra e Cargill, nei pressi di Villa Borghese. La lettera che l’ artista inviò il 24 aprile all’ amata compagna Serafima Lyceva: «Oh, tesoro mio, che cos’ è questa città! Roma! In qualunque direzione tu vada, ti imbatti in decine di cose stupende. Dappertutto fontane, vicoletti, piazze. Ovunque un’ infinità di marmo antico, divinità di ogni tipo, magnifica architettura. Senza parlare poi di Michelangelo e di tanti altri grandi. Roma è in costruzione. C’ è un’ interessante architettura moderna. Molto severa e tradizionale. Bianche statue marmoree si stagliano sullo sfondo di verdi colline, schiere di preti di ogni ordine sciamano per le strade, tutto è molto suggestivo. Straordinariamente impressionante, per ampiezza e planimetria, lo stadio di Mussolini». Dalle note di quelle giornate appare un Deineka in cammino giorno e notte per la città: «Di sera qui c’ è ancora luce e il popolo è ancora tutto per strada, non come a New York, dove tutto si concentra intorno a Broadway; o come a Parigi, dove alle otto di sera la gente si chiude dietro le persiane e per le strade restano solo stravaganti come me». Si entusiasma davanti alle pitture murali. «È a fresco che bisogna dipingere!». Ammira la qualità della grafica pubblicitaria: «Per le strade moltissimi manifesti, se ne incontrano di assai buoni, realizzati con gusto». Però, mentre a Parigi era entrato al Louvre per ben sei volte, a Roma rimanda le visite ai musei, respinto dalla «patina grigia e polverosa che si deposita sulle opere, spegnendole». Dipinge alcune vedute della città: in mostra si possono vedere gli acquerelli con la piazza del Quirinale e lo Stadio dei Marmi, accanto alla grande tela con due cardinali svolazzanti lungo una strada. Ostarkova sostiene che Deineka visitò la Quadriennale. Nelle carte la studiosa non ha finora trovato riferimenti diretti all’ esposizione. Ma negli appunti di viaggio, redatti subito dopo il ritorno in patria, il pittore dimostra di avere incontrato (eccome!) l’ arte contemporanea italiana e, in contraddizione con quanto aveva scritto da Roma, ne dà un giudizio tagliente: «Gli italiani, attenendosi all’ eredità classica, esagerano le dimensioni dei loro quadri e delle loro statue. I loro lavori sono spettacolari ma non profondi. E spesso cadono in una magniloquente retorica. I simboli delle virtù civiche negli affreschi di Funi risultano imprecisi sia nel senso che nella forma compositiva. Sono prive di vitale concretezza le vetrate di Sironi, costruite su un pathos artificiale di una mistica monumentale e pomposa. De Chirico, Tozzi, Campigli: rappresentano l’ attuale fase di civetteria del fascismo con i movimenti della sinistra».
Lauretta Colonnelli