Fausto Carioti, Libero 23/3/2011, 23 marzo 2011
Costi, profughi e regole. Ecco perché diciamo no - Non è questione di pacifismo. Il pacifismo è un’utopia che spesso finisce per produrre guerre peggiori di quelle che pretende di evitare
Costi, profughi e regole. Ecco perché diciamo no - Non è questione di pacifismo. Il pacifismo è un’utopia che spesso finisce per produrre guerre peggiori di quelle che pretende di evitare. Se questo quotidiano ritiene che in Libia sia in atto una «Guerra da matti», come si leggeva nel titolo di lunedì 21 marzo, è per motivi di realismo. Ne abbiamo contati dieci. 1. La guerra in Libia non è quello che dice di essere. Essa non è un intervento umanitario. Altrimenti i caccia bombardieri dei “volenterosi” sarebbero in azione anche in altri Paesi, dove le violenze sono più gravi di quelle perpetrate da Gheddafi. Nello Yemen, ad esempio, il presidente Ali Abdullah Saleh ogni giorno usa i cecchini per uccidere i manifestanti. Ma nel suo caso,come in altri, i governi occidentali si limitano a esprimere qualche protesta, regolarmente ignorata. È chiaro che i veri motivi dell’azione militare in Libia sono altri: più che i diritti delle minoranze oppresse, a contare sono il gas e il petrolio. Negare questa evidenza rende la missione poco credibile. 2. La guerra in Libia si basa su presupposti ambigui. All’Onu è prassi che certe risoluzioni siano scritte in modo vago, affinché ogni Stato le interpreti come gli è più vantaggioso. Conla risoluzione1973però si è esagerato. Essa autorizza l’uso di «tutte le misure necessarie» per «proteggere i civili e le aree civili popolate sotto minaccia di attacco». È escluso solo l’insediamento di una «forza occupante». L’uso di truppe di terra è quindi contemplato, a patto che non si collochino stabilmente sul territorio libico. Cina, Russia e Lega Araba, che all’inizio non si erano opposte alla risoluzione, una volta capito cosa essa consente si sono rivoltate. La spaccatura creata in seno all’Onu dopo l’attacco è dovuta proprio alla fumosità di questo testo. 3. La guerra in Libia si sta svolgendo con mezzi ambigui.Il conflitto è iniziato senza sapere nemmeno chi comandasse l’operazione. Nelle prime ore il ruolo di guida è stato assunto, di fatto, dalla Francia, che ha voluto bruciare tutti sul tempo. Dopo furiosi litigi, Parigi pare avere accettato la leadership della Nato. Ma il caos prosegue: laGermania,accusata dai vertici dell’Alleanza atlantica di nonpartecipare attivamente, si è sfilata dalle operazioni. 4. Anche i fini della guerra sono ambigui. Gli Stati Uniti e la Francia, pur non ammettendolo ufficialmente, puntano a cacciare Gheddafi. Ma ci si limiterà a un cambio di leader o si proverà a instaurare un nuovo regime, presumibilmente democratico? Su questo aspetto cruciale non è in corso alcuna riflessione e la stessa amministrazione Obama non ha ancora elaborato una propria dottrina. Siamo all’improvvisazione. 5. La guerra in Libia rischia di essere lunga e pericolosa. Come sempre chi attacca promette una guerra lampo. Ma ci sono tutti i presupposti perché le cose vadano in modo opposto. Lo stesso segretario americano alla Difesa, Robert Gates, che aveva sconsigliato l’intervento militare, parlando al congresso il primo marzo scorso ha detto che l’imposizione di una “no-flight zone” avrebbe comportato «una grande operazione in un grande Paese». Non lo hanno ascoltato. 6. Si rischia di mandare al potere qualcuno peggiore di Gheddafi. L’incertezza sul “cosa fare” una volta cacciato il rais rende possibile l’inse - diamento di un leader peggiore di lui. Tra i suoi nemici c’è l’organizza - zione fondamentalista dei Fratelli Musulmani, il cui ideologo, Yusuf al- Qaradawi, ha benedetto l’intervento armato contro le truppe governative. Gheddafi è un tiranno, ma conosce i valori occidentali e questo lo porta, ad esempio, a rispettare le donne, come dimostra anche l’educazione europea e secolarizzata che ha ricevuto sua figlia Aisha. Dopo di lui, rischia di arrivare qualcuno che, magari innome delCorano,sicomporti in modo molto più barbaro. 7. La politica poteva ancora dire la sua. Per decidere di mandare via ::: segue dalla prima VITTORIO FELTRI . Saddam Hussein gli Stati Uniti hanno impiegato 13 anni, dal 1990 al 2003. Durante i quali l’intera diplomazia internazionale ha compiuto ogni sforzo. La cacciata di Gheddafi con le armi è stata decisa invece nel giro di pochi giorni, senza tentare di frapporre un corpo internazionale tra le truppe del colonnello e i rivoltosi e senza provare sul serio a indebolire il regime di Tripoli con ritorsioni politiche ed economiche. 8. Si crea un precedente pericoloso. Il pretesto dell’azione umanitaria illude gli altri popoli e mette l’Onu in una posizione imbarazzante. Cosa si risponderà alla minoranza tibetana, o alle opposizioni massacrate in Siria e Yemen (ma l’elenco potrebbe essere lunghissimo), il giorno che dovessero bussare al palazzo di Vetro per chiedere un aiuto analogo a quello concesso agli insorti libici? Il risultato sarà un’ulteriore perdita di credibilità delle Nazioni Unite. 9. La guerra rischia di riempire l’Italia di profughi. Bene o male gli accordi con il rais funzionavano. Adesso i trafficanti di esseri umani stanno per avere rotta libera verso l’Italia. Come dice il sottosegretario Alfredo Mantovano, «quando la tensione in Libia si allenterà ci saranno decine di migliaia di sbarchi». Non solo dalla Libia, ma da tutto il nord Africa. E niente può escludere l’arri - vo di fondamentalisti e terroristi. La Ue, intanto, sta a guardare. 10. La guerra in Libia costa. Ci sarà un prezzo da pagare, in termini di vite umane e di soldi. Sarà tanto più alto quanto più a lungo durerà il conflitto. Una stima del costo economico che dovrà sopportare il nostro Paese non è ancora stata fatta, perché tutto è iniziato in fretta e il governo spera ancora che gli scontri durino poco. Di sicuro, in un momento come questo, i contribuenti italiani avevano bisogno di tutto tranne che di una nuova spesa da finanziare.