Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 23/03/2011, 23 marzo 2011
AMERICA O CARA - È
un tesaurus americano, quello di Alberto Arbasino, un viaggio enciclopedico nella modernità, che ingoia e include tutto: società, famiglia, cultura, letteratura, costume, teatro, arte, cinema, politica, architettura, urbanistica, cucina. Mode, tendenze. Alte e basse. Con il gusto della scoperta e con sguardi sempre diversi, ora ravvicinati ora panoramici. Al punto da riuscire a prevedere, già alla fine degli anni 50, sviluppi che oggi, qui nella Vecchia Europa, ci appaiono attualissimi. E poi, tanti, tanti ritratti di mostri sacri raccontati nel loro contesto: si parte da Henry Kissinger, si passa per Edmund Wilson e si arriva a Marlon Brando, a Mary McCarthy, a Saul Bellow. «Sono arrivato in America la prima volta per nave nel ’ 59 con una borsa di studio— dice Arbasino— per seguire a Harvard i corsi di Kissinger, direttore molto giovane dei seminari estivi di International Affairs» . Ogni sabato, sul prato di casa Kissinger, gli studenti incontrano anche lo studioso di politica Arthur Schlesinger, l’economista John Kenneth Galbraith, sociologi, poeti e Eleanor Roosevelt, vedova del presidente: «Erano personaggi mitici a portata di mano nel campus, potevi passare delle ore con loro a colazione» . Si fanno i grandi discorsi sul futuro, sulla politica estera, sul disarmo, sui princìpi etici subordinati alla produzione e al consumo, eccetera. Ma accanto alle strategie politiche non mancano gli zoom sulla voga dei bermudas, dei mocassini marron, dei cappelli di paglia. Arbasino è curioso di tutto, prende appunti, scrive, consegna i suoi reportages al «Mondo» , a «Tempo Presente» , all’ «Illustrazione Italiana» , al «Giorno» , al «Corriere d’Informazione» , all’ «Espresso» formato lenzuolo. Sono corrispondenze d’altri tempi nello stile e nel respiro: materiale ampliato e riscritto per questo libro (America amore, Adelphi, pagine 867, e 19). I weekend a Cape Cod sono puro divertimento da ragazzi o incontri indimenticabili, come quello con Wilson, il maggior critico del tempo, uno «straordinario giornalista» , lo definisce tra l’altro Arbasino: «Wilson recensisce tutto con la stessa ilare alacrità di Chaplin imbianchino quando, con una pennellessa in mano, dipinge assolutamente ogni cosa che gli capita sotto» . Si potrebbe osservare che la stessa attitudine onnivora vale per Arbasino, il quale, come Wilson, «ha la passione di vivere dentro i fatti della cultura» . C’è una differenza, anzi due o tre. Primo: «Io sono sempre stato talmente sull’attualità culturale che ogni volta, per passare dal giornale al libro, ho dovuto riscrivere: molte cose che al momento facevano parte della quotidianità invecchiavano già in pochi mesi, figurarsi cinquant’anni dopo. I saggi di Wilson erano frutto di studi e di ricerche, dunque nascevano già per andare in volume» . Secondo: mentre il grande vecchio Wilson decise di ritirarsi in un eremo lontano, Arbasino non smette di viaggiare e curiosare: «Quando andai a trovarlo io, Wilson si era ormai allontanato dalla contemporaneità: aveva deciso di stabilirsi nella sua casa di pietra a Cape Cod, circondato di libri» . Non è il caso dell’ottantenne Arbasino, che parla delle recenti trasferte a Madrid e ad Amsterdam (dove «non c’era niente di speciale» ), che tra un mese tornerà a New York, dove vedrà mostre, spettacoli, concerti. Come se l’età non pesasse: «L’età pesa, eccome. Ho approfittato di tante occasioni, ho vissuto favorevolmente i miei anni: mi è molto piaciuto finché è durato, ma ripetere quelle esperienze non sarebbe divertente. In tempi più felici c’erano le mostre epocali al MoMa o i musical adulti a Broadway, i concerti e le opere: tutta roba che non si poteva perdere. Oggi vado, ma trovo quel che trovo, e di mostre epocali, a New York a Berlino o a Vienna, non ne vedo più molte» . Ora, ricordando le prime impressioni del se stesso non ancora trentenne che approdò a Manhattan, Arbasino dice: «Era un altro mondo con cui non avevi familiarizzato neanche attraverso la tv. Un Paese ricco, moderno, entusiasta dove trovavi un progetto. O tanti progetti. Certo, dopo un po’ si capiva che quel progresso poteva avere anche degli inconvenienti. Per esempio, andando a Los Angeles si vedeva subito la città disumana, però era la stessa California delle università di Berkeley e di Stanford, dove c’erano movimenti di liberazione e flower-children, le chitarre, le ragazze con le gonne ampie a colori e i bambini lasciati lì sull’erba per crescere in maniera non autoritaria: tutte cose che qui da noi sono diventate nel giro di qualche anno passamontagna, attentati e rapimenti» . America amore o America amara? America amore all’inizio, poi a poco a poco Arbasino vede anche un altro Paese: la Boston che vive l’esodo verso le periferie, le metropolitane luride, San Francisco che scoppia di ricchezza e di povertà, la New York scintillante e quella piena di solitudine e di angosce private. Quando arriva in America, Arbasino si è già laureato in Giurisprudenza a Milano con una tesi di argomento politico amministrativo, ha già fatto lunghi soggiorni di studio a Parigi e a Londra, dove si è avvicinato al mondo della cultura. «Finiti i seminari a Harvard, decisi di trasferirmi a New York, per vedere tutto ciò che di bello e di brutto c’era a Broadway. Valeva la pena raccontare anche la robetta e la robaccia, che spesso riservava più sorprese» . Nei teatri o nella Hollywood on-Hudson si poteva incontrare Paul Newman, descritto come un «coscienzioso impiegato: modesto, tranquillo» . «Qui a Roma — racconta Arbasino — c’erano suoi fans che mi dicevano: se ti capita, prova a misurare se è alto o piccolo... Cose ridicole. I divi, in effetti, potevi incontrarli facilmente in camerino dopo gli spettacoli. Che delusione quando ho riferito ai miei amici che Paul Newman era più basso di me!» . Simpatico, però. Al contrario di Marlon Brando, arrogante e sempre imbronciato. Arbasino va a dare un’occhiata sul set di Orpheus Descending, dove c’è anche Anna Magnani: «Pur lavorando insieme, non si guardavano e non si parlavano. Lei sembrava affranta e pessimista, lui altezzoso, non si trovavano» . Poteva capitare di trovarsi alla Casa Bianca per un ricevimento, grazie all’amicizia con Ugo Stille e Camilla Cederna («Questo è un nostro amico, viene con noi» ) e incrociare Kruscev, in visita ufficiale negli Usa. La grande bipartizione critica, ai tempi, era tra Visi pallidi e Pellirosse. I primi, gli eredi di James e Fitzgerald, quelli più europei e raffinati, sono gli sconfitti. Hanno prevalso i Pellirosse, con «il materialismo sentimentale della società di massa» , in una società «naturaliter conformista» . «Era quella la formula critica in uso, con i Pellirosse veniva fuori l’aspetto più nativo, western e meno intellettuale» . La nuova letteratura pellerossa non piace un granché ad Arbasino: lo si capisce leggendo il capitolo «Trenta posizioni» . Quando arriva Il giovane Holden grida al miracolo, ma di fronte a Franny e Zooey l’entusiasmo si spegne: «Vedevo l’applicazione della formula e ripensai in termini meno entusiasti anche al romanzo» . E anche l’isolamento di Salinger gli sembrava costruito per esaltare «la propria leggenda mondana» . Altra cosa era l’inaccessibilità dei vecchi Faulkner e Hemingway: l’ammirazione per il primo supera di molto la stima dovuta al secondo, il cui stile è «un monumento alla congiunzione e un accumulo di semplici frasi coordinate» . I giovani sono i rispettati (ma niente di più, a quanto pare) Philip Roth, John Updike, Gore Vidal. «Gli autori di cui parlo? Per lo più non sono di grande levatura. Scott Fitzgerald era morto da anni, e gli ultimi libri di Hemingway non erano un granché. Saul Bellow sì, con lui ci siamo» . Nel capitolo su Bellow, Arbasino dedica un paragrafo alle affinità con Svevo. E adesso ricorda quando l’autore di Herzog passava per Roma «fresco e ridente» , negli anni 70. Oggi sembrano finiti i veri scandali alla Nabokov. La letteratura, forse, ha preso la piega che Arbasino intravedeva già cinquant’anni fa, quella della regressione infantile: «Immaturità, direi. Nei romanzi di quelle generazioni non c’erano i problemi coniugali o adulterini delle letterature europee. Gli uomini non erano mai sicuri della propria identità e dei propri istinti, dunque non poteva prodursi una Anna Karenina o una Madame Bovary, storie d’amore convincenti. Erano semplici e immaturi, capaci solo di trattare quei pochi temi legati all’adolescenza» . Raccontini «pulitini e un po’ anemici» . Per trovare il meglio bisognava rivolgersi agli scrittori ebrei e ai neri (magari omosessuali). E poi un tempo c’erano i pundits, gli intellettuali che fornivano idee alla società di massa e la orientavano. Oggi, scomparsi pure quelli? «Erano quelli che sdottoravano dall’alto dei loro podietti. Oggi di gente che tenta ce n’è tanta, ma non viene ascoltata. Tanti narratori riversati anche qui da noi, spinti dalle agenzie, ma parlano dei loro libri e non vien fuori un granché. Le voci autorevoli non le vedo. In Italia, poi, ancora meno, per fortuna» . E dopo i viaggi in America, il rientro a Roma? «C’era la Dolce Vita» .
Paolo Di Stefano