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 2011  marzo 23 Mercoledì calendario

RISCHIO RETROCESSIONE PER L’ITALIA

Ieri Bulgari, oggi Parmalat? Le acquisizioni straniere di imprese italiane non comprendono solo marchi notissimi della moda come Valentino, Gucci e Ferré. L’elenco si allunga sensibilmente se, oltre al «Made in Italy», si considerano banche e società finanziarie.
A queste si aggiungono le piccole e medie imprese industriali operanti soprattutto in «nicchie» molto specializzate sulle quali dovrebbe basarsi il futuro produttivo del Paese. Non bastano a fare da contraltare le pur numerose acquisizioni italiane di imprese straniere: se si eccettua il caso Fiat-Chrysler, decisamente atipico, in questi ultimi anni gli acquisti all’estero sono stati prevalentemente effettuati da imprese medie e medio-piccole impegnate in una difficile crescita internazionale mentre l’estero mira tranquillamente ai bersagli grossi.

Perché imprese che sono diventate sinonimo di eccellenza, simboli mondiali della capacità italiana di produrre bene non attirano a sufficienza l’interesse (e i capitali) degli investitori italiani? Perché Prada, altro grosso nome della moda, ha scelto addirittura Hong Kong e non Milano per quotarsi in Borsa? Perché, come documentato alcuni mesi fa da questo giornale, oltre un centinaio di piccole imprese hanno lasciato la Lombardia per trasferirsi in Svizzera?

Non ci sono risposte facili ma è possibile individuare un fattore importante, di tipo culturale prima che finanziario, che riguarda il modo di agire degli imprenditori italiani: pieni di inventiva e di coraggio quando si tratta di realizzare nuovi prodotti, non lo sono altrettanto quando si tratta di impegnare fino in fondo nelle aziende i propri capitali. Spesso geniali, tra un colpo di genio e l’altro, non amano le strategie «lunghe» e noiose, assomigliano più a Garibaldi che a Napoleone.

Per non fare il passo più lungo della gamba, hanno tradizionalmente ricercato la «sponda» delle banche o del settore pubblico per finanziamenti, garanzie e occasioni di crescita mentre i loro colleghi stranieri ricercano prima di tutto il consenso, e quindi i finanziamenti, del mercato. Dalle banche e dal settore pubblico non possono più ricevere, a differenza del passato e a causa della crisi finanziaria, garanzie sufficienti a costituire un piedistallo sul quale poggiare l’espansione della loro azienda o finanziamenti sufficienti per sostenere lunghe strategie espansive. E la Borsa, dalla quale in teoria potrebbero provenire nuovi capitali e nuove idee, sembra aver perso slancio dopo l’unione con Londra: i progetti migliori e gli affari più importanti passano sempre più frequentemente per la capitale britannica, o per il lontano Oriente, mentre le famiglie sono tradizionalmente molto caute e timorose nell’impiegare i loro risparmi in titoli azionari.

Soli e stanchi, gli imprenditori cercano un’altra «sponda». La trovano sovente all’interno di grandi gruppi stranieri che da un lato impongono loro una disciplina finanziaria che raramente saprebbero darsi da soli, dall’altro forniscono garanzie sugli sbocchi produttivi che altrimenti non potrebbero più trovare. La loro stanchezza fa da contrappunto alla visibile stanchezza del sistema politico nazionale, incapace di formulare, o anche solo di indicare, linee guida per la crescita. E non è possibile dimenticare le notissime complessità amministrative, la pesantezza fiscale, la penalizzazione di fatto delle iniziative nuove, che fanno scappare in Svizzera le impresine lombarde, né la mancanza di garanzia sulla sicurezza personale in alcune aree del Paese.

In questo modo il sistema produttivo tende lentamente ad assottigliarsi, a perdere energie e punti di orientamento così come una perdita di energia e di orientamento è chiaramente visibile dalla mancanza di obiettivi generali di lungo periodo. Il confronto con la Francia è particolarmente bruciante se si considera che la Danone (che può essere considerata la «Parmalat francese») è stata, nel corso degli anni, incoraggiata a crescere mediante fusioni e acquisizioni all’interno della Francia, con l’obiettivo specifico, condiviso da governi di vario orientamento, di farne un leader del settore alimentare europeo e mondiale.

In Italia, l’interesse sul caso Parmalat si è incanalato pressoché unicamente sulle questioni giudiziarie, sul passato - naturalmente degno della massima attenzione e rispetto - dei risparmiatori da risarcire e non sul futuro, ossia sulle strategie, di una Parmalat rimessa a nuovo con alle spalle un’importante e preziosa esperienza multinazionale. Proprio per questa mancanza di sensibilità alle strategie future gli italiani sono stati completamente spiazzati dall’azione finanziaria francese, condotta con rapidità ed efficienza.

In Francia, nel 2005 un tentativo di scalata alla Danone da parte dell’americana Pepsi fu respinto con decisione dal governo. Successivamente la Danone fu inserita in un ristretto gruppo di imprese dichiarate irrinunciabilmente francesi, una protezione molto discutibile ma applicata, in una forma o nell’altra, nei principali Paesi «di mercato», Stati Uniti compresi, per quanto riguarda le industrie ritenute essenziali. In Italia, la Parmalat è alla mercé di qualsiasi azione acquisitiva di chi si dimostri sufficientemente intraprendente, svelto e amante del rischio per comprarsi, nello spazio di qualche settimana, una bella azienda con oltre 4 miliardi di fatturato. E proprio per non essere amante del rischio, l’Italia rischia grosso: di non ritrovarsi più prima fila nell’economia globale.