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 2011  marzo 20 Domenica calendario

COLONNELLO E SCRITTORE I RACCONTI DEL BEDUINO CHE ODIA LE FOLLE

Per qualche stranissima ragione, l’arte di scrivere romanzi diventa una tentazione irresistibile per chiunque, una volta che abbia raggiunta la mezza età e abbia passato la propria vita a fare qualcosa di completamente diverso.
Avvocati, insegnanti, medici intorno alla sessantina sommergono regolarmente le scrivanie delle case editrici, colti da un improvviso colpo di fulmine con le muse e con risultati imbarazzanti.
Naturalmente il mestiere di Capo di Stato, o di dittatore, non è affatto immune da questo tic nervoso, ed ecco così che la Storia della letteratura ci ha regalato le prove narrative di Saddam Hussein, con i suoi feuilleton scritti nei giorni della caduta e il pessimo Coningsby di Benjamin Disraeli.
Ma poiché nulla può aiutarci a capire la psicologia di un uomo in bilico quanto leggere le sue fantasie di carta e d’inchiostro, vale la pena di guardare a un caso specifico, che in questi giorni è al centro di una crisi internazionale.
Nel 1993 vide la luce presso un modesto editore di Sirte una raccolta di racconti di uno scrittore esordiente, mediocre, che aveva in sé l’unico pregio di reggere già da ventiquattro anni i destini della Libia. Il titolo era sicuramente d’impatto, Fuga all’inferno, e il suo autore, il colonnello Muammar Gheddafi, l’aveva annunciata tre anni prima per celebrare il settantacinquesimo anniversario della sconfitta della massiccia colonna Miani dell’esercito italiano.
Ripubblicati in Egitto, in Svizzera, negli Stati Uniti e in Canada, i raccontini uscirono in Italia soltanto nel 2006 per i tipi di manifestolibri, con un’introduzione entusiastica di Valentino Parlato, da sempre una delle voci italiane più decise nel sostenere la figura del leader tripolino. Secondo Parlato, colui che aveva «dato, forse per la prima volta nella storia, alla Libia la dignità di nazione» aveva scritto «un’opera di apprezzabile qualità», un libro «che - come molta buona letteratura - agisce sugli uomini e sulle cose della politica» e che soltanto la miopia italiana aveva potuto fare sì che restasse non tradotto per più di dieci anni.
Perciò, fiducioso, il lettore nostrano poteva finalmente addentrarsi nella prosa incalzante del racconto La città, ed apprezzarne le doti stilistiche e la portata ideale. E tutto questo a partire dall’incipit: «La città fin dall’antichità - e a maggior ragione oggi - rappresenta l’incubo dell’esistenza, non la sua felicità, come invece si può pensare… se fosse portatrice di felicità, allora si potrebbe giustificarla, ma la città (…) è una ressa pulsante, in cui le persone si trovano loro malgrado». Un po’ semplicistico, ma poi Gheddafi approfondiva: «Non si va a vivere in città per puro piacere, ma per sopravvivere, per guadagnarsi il pane con il duro lavoro… o per bisogno… o perché si è trovato un impiego che obbliga a rimanervi». Questa dialettica da bar, questa sua rabbia da circolo anziani, non mancava ovviamente di argomentazioni stringenti: «La città è la tomba delle relazioni sociali e chi vi entra si smarrisce, avvolto dalla forza dei suoi flutti, che lo trasportano da una strada all’altra, da un quartiere all’altro… e da un lavoro all’altro… e da un compagno a un altro». Puntini di sospensione sempre e comunque dell’autore. Inoltre forse non tutti sapevano che «gli inquilini di un palazzo non si conoscono tra loro, specie nei fabbricati grandi, in cui si viene identificati soltanto da un numero».
Né il sogno agrario di Gheddafi rinunciava ovviamente a un po’ di sano e scontatissimo terrorismo psicologico: «In città il figlio può uccidere il padre, e il padre il figlio, senza volerlo, mentre guida a tutta velocità una vettura, un’automobile o un altro qualsiasi mezzo». Non c’è più religione: «Il figlio insulta il padre senza riconoscerlo, se questi lo urta in strada, o lo illumina con i fari della sua auto… Spesso anzi in città si arrivano a praticare con noncuranza matrimoni illeciti, a causa della gran quantità di persone e della frequenza di unioni e separazioni».
Stava qui tutta la saggezza umana del colonnello, esordiente scrittore, il sogno antimetropolitano contrapposto alla «fuga… la fuga dalla città», da «i gas velenosi», «dai clacson dei filobus» del racconto Il villaggio. Tirate contro le televisioni che trasmette «film a disegni animati con lo scopo di distogliere da noi i nostri figli, e non importa se queste pellicole possono essere dannose, o occidentali»; maledizioni contro la famiglia di Giacobbe, capostipite del popolo d’Israele, «la più bassa delle famiglie, e anche la più empia e ipocrita».
«Certamente, sono deluso» confessava il leader libico al Corriere della sera nel dicembre del 1996, a un Angelo del Boca che gli chiedeva spiegazioni riguardo a questo letterario rigurgito di pessimismo a oltranza. Deluso dal mondo contemporaneo, ma soprattutto dal mancato successo del suo Libro Verde, la bibbia politica del colonnello, scritta anni prima e distribuita a forza al popolo. «I principi contenuti nel Libro Verde sono ovviamente dei principi utopistici. Se la mia gente li avesse adottati, oggi vivremmo in un mondo più felice, più verde. Ma è difficile, con la gente di oggi, conseguire tali risultati».
La gente, sì, ecco, la gente. È nel racconto che dava il titolo alla raccolta, Fuga all’inferno, che il nostro autore mette in mostra la più compiuta spiegazione del proprio pensiero. La voce narrante, quella di un beduino carico di nobiltà d’animo, spiegava quale fosse la vera piaga della società di massa: la democrazia. Perché «dal punto di vista umano non c’è niente di peggio della tirannia di una moltitudine!! È come un torrente impetuoso che non ha pietà di chi gli si trova dinanzi!!». Ah, ingratitudine delle folle! «Nel momento della gioia, di quanta devozione esse sono capaci?». Poi, se la ruota riprende a girare, con quanta rapidità si dimostrano pronte a voltare la faccia! «Hanno sostenuto Annibale, Pericle, Savonarola, Danton, Robespierre, Mussolini, Nixon, e quanta crudeltà poi hanno dimostrato nel momento dell’ira!» Non per nulla le folle «hanno cospirato contro Annibale e lo hanno avvelenato, hanno bruciato Savonarola sul rogo, hanno mandato il loro eroe Danton alla ghigliottina, hanno fracassato le mascelle di Robespierre». Non solo: «Hanno trascinato nelle strade il cadavere di Mussolini, hanno sputato in faccia e schiaffeggiato Nixon mentre lasciava la Casa Bianca dopo che erano state loro a farcelo entrare!»
Contro la «gente», e per reagire al grande flop dell’utopia agraria, Gheddafi così si era gettato nei suoi racconti beduini, per dimostrare come, a volte, può essere questo il primo sprone per il politico-scrittore: fuggire nel sogno, se la realtà lo ha scoraggiato. Vestire i panni dei propri antenati del deserto, e rimpiangere un mondo senza folle, un mondo senza le automobili e senza i condomini, senza televisione e senza diritto di voto. La vita pulita, ecologica e nobile di un invidiabile e sterminato deserto.