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 2011  marzo 23 Mercoledì calendario

Lactalis conquista il 29% di Parmalat - C’est l’argent qui fait la Parmalat. Soldi e velocità sono gli ingredienti che hanno permesso ai francesi di Lactalis di conquistare una quota di poco superiore al 29% di Parmalat, a ridosso della soglia dell’Opa

Lactalis conquista il 29% di Parmalat - C’est l’argent qui fait la Parmalat. Soldi e velocità sono gli ingredienti che hanno permesso ai francesi di Lactalis di conquistare una quota di poco superiore al 29% di Parmalat, a ridosso della soglia dell’Opa. Con l’ennesimo coupe di theatre, il colosso di formaggi e latticini della famiglia Besnier ha messo sul piatto, sotto la regia del consulente Societè Generale, un assegno da 750 milioni di euro per comprare dai fondi esteri Zenit, Skagen e Mackenzie il 15,3% di Parmalat. Una quota che si somma a circa il 14% di azioni già rastrellate dai francesi che in tutto hanno sborsato circa 1,3 miliardi. Ma la partita sembra riservare ancora altri colpi di scena. Secondo fonti finanziarie, ieri pomeriggio ci sarebbe stato a Parigi un incontro tra i Ferrero, partner industriale della cordata tricolore interessata a Parmalat ed Emannuel Besnier, presidente e maggiore azionista di Lactalis appena rientrato da Milano. I Ferrero sarebbero pronti a metter mano al portafoglio per avere il controllo di Parmalat al posto dei francesi, ma non sarebbero disposti a fare battaglie finanziarie a colpi di Opa contro Lactalis. Insomma potrebbe esserci ancora spazio per una trattativa e i francesi potrebbero anche fare un passo indietro e cedere le loro azioni a Ferrero. Certo molto dipenderà anche da quali saranno gli effetti del decreto antiscalate che il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, porterà oggi in Consiglio dei ministri e dal decreto Milleproroghe. Per ora Parmalat parla francese: a staccare l’assegno per comprare quel 15,3% di Parmalat in mano ai fondi esteri, è stato sempre Emmanuel Besnier, che lunedì, dopo una telefonata in tarda mattina, è partito alla volta di Milano per incontrare nel pomeriggio, nello studio legale Paul Hastings, i rappresentanti dei fondi esteri. Dopo una trattativa durata ore i fondi, a tarda notte, hanno accettato l’offerta irrevocabile di Besnier che poi è stata comunicata ieri mattina al mercato. I fondi esteri, come aveva ribadito Massimo Rossi, il loro candidato amministratore delegato, avrebbero preferito cedere il loro pacchetto di azioni alla cordata tricolore, che vede come capofila Intesa Sanpaolo. E contatti con la banca, guidata da Corrado Passera, ci sarebbero stati anche perché fino a mezzogiorno di lunedì i fondi esteri si aspettavano una convocazione di Intesa che avrebbe dovuto sfociare in un incontro con i Ferrero, che però non si è mai concretizzato. A quel punto è entrato in scena l’argent francese. Ma i Ferrero non gettano la spugna. «Nella vicenda Parmalat - spiegano in una nota - Ferrero ha risposto con interesse e simpatia alla eventualità di un progetto industriale di lungo periodo di stampo italiano. Rimane interessata se matureranno le condizioni che lo rendano possibile». Per la Borsa, invece, la partita è chiusa. Il titolo Parmalat ieri ha fatto un capitombolo del 7% a 2,29 euro. Alla prossima assemblea Parmalat del 14 aprile, finora i Besnier hanno i numeri per conquistare la maggioranza nel consiglio di amministrazione, almeno sei posti su undici. La loro lista, presentata venerdì, è guidata dal presidente di Lactalis Italia, Antonio Sala, e tra i candidati c’è anche Franco Tatò. I francesi sarebbero disponibili a nominare come presidente di garanzia Enrico Bondi, attuale ad di Parmalat. Ma Bondi, che figura tra i componenti della lista di Intesa Sanpaolo, secondo fonti finanziarie non è disponibile ad avere un ruolo operativo in Parmalat nel caso in cui la francese Lactalis dovesse assicurarsi la maggioranza in Cda. Anche Granarolo tifa per l’italianità di Parmalat. «Speriamo che non sia troppo tardi» per una cordata italiana, ha affermato il presidente di Granarolo, Gianpiero Calzolari, ma «bisogna vedere se le banche e il governo possono ancora fare qualcosa». LUCA FORNOVO *** Nella patria del Camembert il latte ha anche un museo - Ugo Foscolo ribattezzò Milano «Paneropoli», la città della «panera», del formaggio. Evidentemente non conosceva Laval. Benvenuti a «Camembertopoli», la capitale che non t’aspetti dell’industria casearia francese e di una bella fetta di quella mondiale. Laval, dipartimento della Mayenne, all’incrocio fra Bretagna, Normandia e Angiò, nell’Ovest rurale, cattolico, conservatore e noiosissimo, è una cittadina di 60 mila abitanti, carina con il suo castello a picco sul fiume (appunto la Mayenne) e quella tipica aria da provincia profonda dove tutti sembrano sempre sul punto di slogarsi la mascella a forza di sbadigliare. Al confronto Parma sembra Manhattan, però d’ora in avanti la sorte di Parmalat si deciderà qui. Perché qui ha sede la Lactalis, una multinazionale vera che vende latte, burro, formaggi e yogurth in 148 Paesi e li produce in 125 stabilimenti sparsi per il mondo. Dando i numeri per dare un’idea: 10 miliardi di euro di fatturato (il 60% all’estero), 38 mila dipendenti, più di 9 miliardi di litri di latte raccolti, 889 mila tonnellate di formaggio prodotte, cento marchi. In Italia, suoi Cademartori, Galbani, Locatelli, Invernizzi. E poi: terzo produttore mondiale di latticini, secondo dell’agroalimentare francese, primo produttore mondiale di formaggi. Il colosso, però, è un’impresa familiare. Non è quotato in Borsa e i soci sono solo tre: Jean-Michel, Emmanuel e Marie Besnier, nipoti di André che fondò l’azienda e figli di Michel che l’ha fatta crescere. E dei Besnier nessuno sa nulla a Laval, figuriamoci nel resto del mondo. Nessun Besnier ha mai dato un’intervista. Non parlano con i giornalisti e poco anche con gli altri. Emmanuel, il presidente (i fratelli sono solo azionisti), non fa vita mondana, non frequenta il jet-set, non si fa vedere. E’ difficile perfino trovare sue foto: «Se andasse a fare la spesa al mercato, e non è detto che non lo faccia, nessuno lo riconoscerebbe», spiega Jean-François Vallée di «Ouest France», il quotidiano locale. Discrezione totale, riserbo assoluto: al confronto, Cuccia era un’esibizionista. Emmanuel vive qui, pare, e in un castello («Ma come qui ce ne sono tanti», così Vallée gela il collega italiano che già s’immaginava Versailles) e l’unica sua passione nota, a parte il latte, è il calcio. Ogni tanto va allo stadio a sostenere la squadra di Laval (in serie B), ma non se l’è nemmeno comprata: Lactalis è solo uno degli sponsor. «In Francia c’è un detto: per vivere felice devi vivere nascosto», chiosa Jean Arthius, il senatore del posto, che lo conosce benissimo e ne è stato contagiato con il virus della discrezione. Michel Laporte, responsabile della Comunicazione interna del gruppo, non comunica ovviamente nulla. Il decreto che prepara Tremonti? No comment. Parmalat? Idem. Almeno rassicuri gli allevatori, preoccupati di trovarsi a piangere sul latte versato... «Questo sì. Noi non siamo un fondo d’investimento, siamo dei produttori. Da sei anni Galbani è nostra e abbiamo continuato a comprare latte italiano. Monsieur Besnier è come Obelix». Molto grasso? «No, come Obelix era caduto nel pentolone di pozione magica, lui è caduto nel latte». Il latte, qui, è Dio. E i Besnier sono i suoi profeti. Basta dare un’occhiata a Lactopole, il museo che la famiglia ha elevato a se stessa e ai suoi formaggi, sul luogo dove André Besnier, il 19 ottobre 1933, comprò 35 litri di latte e produsse le prime 17 confezioni di camembert. E pensare che di mestiere faceva il bottaio: brevettò non so quale macchina, fu un fiasco e allora passò ai latticini. Il primo bidone è esposto all’ammirazione dei posteri, come la Numero uno di Paperon de’ Paperoni. Ma il genio è il figlio, Michel: fu lui, con l’avvento della grande distribuzione, a trasformare l’azienda in una multinazionale e battezzare il prodotto di maggior successo, il camembert «Président». Ricerche di mercato? Macché: «Visto che in questo Paese - sentenziò - tutti vogliono essere presidenti di qualcosa, dalla Repubblica alla bocciofila, chiamiamolo così». Il museo, per chi proprio non spasima di sapere come si produceva il camembert nel 1950, fa un po’ venire, come dire?, il latte alle ginocchia. Ma per la famiglia, chapeau. Altro che Tanzi... ALBERTO MATTIOLI *** Il gioiello di casa emigra Vince la rassegnazione - I francesi di Lactalis hanno conquistato la Parmalat? Beh, Parma è città in gran parte francese e oggi ritorna ai francesi». Anche un parmigiano («del sasso», ossia doc) come lo scrittore Alberto Bevilacqua allarga le braccia in una sorta di rassegnato fatalismo di fronte alla notizia deflagrata di buon mattino fra le mura care alla duchessa Maria Luigia, già moglie di Napoleone e imperatrice di Francia. Insiste Bevilacqua: «Parma è città femmina, a differenza ad esempio di Torino che è maschia. Segue il suo destino ineluttabile e oggi il suo destino è la Francia. Prima la banca, Cariparma, finita al Credit Agricole, ora la Parmalat. E’ un dramma che continua, un incrocio negativo, un destino, appunto. Dove sta la logica? Inutile cercarla. Vive la France». E in effetti al di fuori degli addetti ai lavori, la notizia sembra scivolare via nell’indifferenza, fra le decine di giovani e meno giovani che si godono il sole primaverile sui prati di Piazza della Pace, o la sazia umanità che affolla bar e osterie fra strada Cavour, strada Garibaldi e strada Farini per l’irrinunciabile rito dell’happy hour. Già, perché a Parma non ci si esalta quando le cose vanno bene e non ci si deprime quando vanno male. Pazienza se oggi tremano i mille che Parmalat occupa sul territorio che diventano 2.200 in Italia. Pazienza se i francesi si pappano una delle poche grandi società nazionali contendibili e non controllate da una famiglia, da un patto di sindacato o da un’azionista pubblico. Un’azienda con i conti in attivo e 1 miliardo e 200 milioni di liquidità in pancia. Sul campo cade il sistema Italia, industriale e finanziario, vittima della mancanza di unità e di tempismo, oltre che della carenza di capitali e di coraggio degli imprenditori nostrani. Prova ne è l’Unione parmense degli industriali che ieri non ha ritenuto di commentare la vicenda. «Innanzitutto il fatto che oggi parliamo del futuro di Parmalat non era così scontato qualche anno fa - prova a ragionare il sindaco Pietro Vignali, a capo di una lista civica appoggiata da Udc, Pdl e Movimento Parma Civica - È il risultato positivo del lavoro fatto fin qui. È chiaro inoltre che oggi la dimensione dei mercati è globale e queste operazioni non possono essere impedite. So che l’Antitrust sta studiando il caso, quindi aspettiamo di sapere quale è il suo giudizio». Poi però, «come parmigiano e come sindaco» dice che bisogna vigilare su occupazione, tutela del marchio e integrità dell’azienda e mette le mani avanti «contro ipotesi di spacchettamento e a tutela della miriade di piccoli risparmiatori che hanno già subito sufficienti delusioni». Prova invece a entrare nel merito del business Marco Rosi, patron della Parmacotto, un gioiellino da 160 milioni di euro di fatturato, leader nella produzione di prosciutti. «Siamo di fronte a una sconfitta dell’italianità, c’è poco da dire. Non abbiamo la dimensione per competere con certi colossi stranieri. Non credo però che Lactalis voglia smontare Parmalat. Mi sembra che si integri con quello della sua controllata Galbani», uno dei più importanti. Fatto sta che io continuo a ricevere offerte per cedere. Resisto perché ho due figli in azienda e insieme abbiamo deciso di impegnarci sempre di più: abbiamo la passione e ci crediamo». Carlo Gabbi, invece, il rapporto con i francesi lo ha sperimentato da tempo e ne dà un giudizio positivo. E’ il presidente della Fondazione Cariparma che nell’omonima banca, controllata da Credit Agricole, mantiene il 15%. «I francesi sono molto rispettosi dell’autonomia del management che è tutto italiano - spiega -. In cambio hanno una redditività molto alta. Certo, noi ci avevamo pensato per tempo. Mentre qui, vedere arrivare quel 30% all’improvviso, fa piangere il cuore». Alla fine i più preoccupati sono i sindacati che temono per il futuro di un settore agroalimentare che qui nella “food valley” occupa oltre 10 mila addetti. «Tutta l’operazione è stata condotta senza trasparenza e in sordina - denuncia Patrizia Maestri, segretario della Cgil - Nonostante le nostre grida d’allarme, nessuno si è mosso. Grandi assenti proprio gli industriali della città. Temiamo lo spezzatino, con un taglio secco degli impiegati. Il governo è intervenuto tardi e male. La mossa del ministro Tremonti non è servita a niente». Insomma, poca rabbia e tanta rassegnazione sulle rive del torrente Parma. Con il sindaco che chiosa: «A tutti piacerebbe tenere i gioielli di famiglia chiusi in uno scrigno. Piange un po’ il cuore, ma oggi funziona così». Vive la France. TEODORO CHIARELLI