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 2011  marzo 23 Mercoledì calendario

Le capriole snob del filosofo all’Eliseo - La guerra sarà anche una cosa troppo seria per lasciarla in mano ai generali, ma non è un buon mo­­tivo per metterla in mano ai filoso­fi, nuovi o vecchi che siano

Le capriole snob del filosofo all’Eliseo - La guerra sarà anche una cosa troppo seria per lasciarla in mano ai generali, ma non è un buon mo­­tivo per metterla in mano ai filoso­fi, nuovi o vecchi che siano. Sul Corriere della Sera di ieri, Bernard-Henri Lévy, che è un curioso con­centrato di Tartarino di Tarasco­na e André Malraux, nonché il più ascoltato consigliere del presiden­te Sarkozy sulla questione libica, ha voluto spiegarci le ragioni del­l’intervento. Letto l’articolo, si ca­pisce meglio perché non si sareb­be dovuto intervenire... Scrive Lévy che i «libici liberi» og­getto della repressione gheddafia­na, «non sono degli angeli», «non sono democratici alla Churchill», alcuni sono stati persino «servitori e debitori» del raìs, e tuttavia «so­no in cammino verso una demo­crazia di cui stanno reinventando, a grande velocità, i principi e i ri­flessi ». Da dove egli tragga questa convinzione, non è dato sapere e infatti più che un ragionamento è un atto di fede, sotteso al quale c’è la curiosa affermazione che «sa­ranno sempre meglio di un dittato­re psicopatico che dell’apocalisse aveva fatto la sua religione». Biso­gnerebbe ricordargli che non si può essere psicopatici a corrente alternata e che dall’Onu all’Eliseo, e nemmeno tanto tempo fa, lo psi­copatico in questione veniva rice­vuto con tutti gli onori, gli si strin­geva la mano, si facevano affari. Dice Lévy che questa guerra «si appoggia su un’insurrezione na­scente, cioè permette, e permette soltanto, ai liberatori di fare il loro lavoro di liberatori e aiuta, quindi, nella circostanza attuale i libici a liberare la Libia». Impedisce quin­di «una guerra contro i civili», e non vedrà «nessun soldato occi­dentale » posare «un piede su suo­lo libico». Dunque, «il contrario di una spedizione coloniale». Detto questo, tuttavia, un paio di paragrafi dopo, Lévy sostiene il suo esatto contrario. Ammettia­mo infatti un cessate il fuoco, un ritirarsi di Gheddafi in quel di Tri­poli, una nazione più o meno divi­sa fra ribelli e regime. Che si fa? Tartarino non ha dubbi. «Non si può pensare che la comunità inter­nazionale faccia lo stesso errore che fece con Saddam Hussein, la­sciando intatta, vent’anni fa, dopo la Prima guerra del Golfo, la sua ca­pacità di nuocere, e di agire in ma­niera criminale». Bene, e allora, e tralasciando il suo aver definito, a inizio articolo, «insensata» la guer­ra in Iraq, di nuovo, che si fa? Per­ché il suo stentoreo grido «Ghed­dafi, vattene!» non sia pour la gale­rie , come si diceva per gli attori tromboni a teatro, come si manda via il tiranno? Lo si bombarda sino a sfinirlo, lo si fa assassinare, si in­vade militarmente il Paese con truppe di terra, si procede a una rieducazione forzata e però demo­cratica della parte refrattaria? È un dato di fatto che dell’insur­rezione in Cirenaica si sa poco, se non che ha a che fare più con que­stioni tribali e geografiche che con linee politiche e ideali. È sicura­mente vero, come ha notato l’ex ambasciatore Boris Biancheri sul­la Stampa , che difficilmente il Con­siglio rivoluzionario di Bengasi po­trà essere altrettanto autocratico e assoluto di Gheddafi, ma resta da chiedersi se, e seguendo la logica dell’«interesse nazionale», con­venga all’Italia un interlocutore fragile e minoritario rispetto a uno indebolito ma che controlla co­munque la maggioranza della na­zione. Ciò che Lévy ipocritamente sor­vola nel suo articolo è che se sia­mo di fronte a un «intervento uma­nitario », non si capisce il criterio per cui alcune popolazioni ribelli meritano di essere aiutate e per al­tre invece è consentito il «lasciar fare». E se dietro l’«umanità» del­l’intervento c’è invece una logica geopolitica e di potere economi­co, non si comprende come se ne possa negare la componente di guerra para-coloniale. Il presidente francese Sarkozy ha molto da farsi perdonare dai suoi connazionali. Gli intrecci affa­ristico- scandalistici con la Tuni­sia di Ben Alì e l’Egitto di Mubarak, il fallimento della sua Unione del Mediterraneo. È comprensibile che se li voglia lasciare alle spalle, e con essi i non esaltanti risultati in politica interna che le ultime ele­zioni cantonali hanno vistosamen­te confermato. Ma, di là dall’aver­gli dato un’italiana come «Pre­mière dame» della Repubblica, l’Italia non è la Francia, per fortu­na nostra e per fortuna loro, e la Libia ci riguarda molto più da vici­no di quanto non riguardi i nostri cugini d’oltralpe.Stando così le co­se, evitando la logica del «flettere i muscoli» e mettendo il più possibi­le la sordina all’ipocrita definizio­ne di «peace keeping» con la quale si copre ogni vergogna e ogni ma­scalzonata più o meno lecita, cer­chiamo di non andare al rimor­chio di chi comunque marcia per conto proprio. Quanto a Lévy, ma­le che vada, ci scriverà sopra un al­tro libro. Come sempre, faremo a meno di comprarlo.