Francesco Manacorda, La Stampa 20/3/2011, 20 marzo 2011
PIU’ LATTE, MENO CACAO. LA SVOLTA DI FERRERO
Roma chiama, Alba risponde. Ma a condizioni precise, la prima delle quali - se mai l’operazione destinata a portare Ferrero in Parmalat dovesse concretizzarsi - è quella di essere il maggior azionista, senza i francesi di Lactalis in casa. C’è infatti un appello all’italianità lanciato con forza dai palazzi della politica e subito risuonato nel quartier generale della Ferrero, dietro l’«interesse e la simpatia» dichiarati esplicitamente venerdì dal colosso del cioccolato per una soluzione nazionale al destino di Parmalat.
Del resto già l’inusuale dichiarazione arrivata da Alba - che a inizio 2010, in tempi di scalata quasi pronta alla Cadbury, si limitava rigorosamente al «no comment» - indica una precisa volontà di rendere nota la disponibilità per un progetto che va oltre gli interessi dell’azienda dolciaria. Un progetto che nella patria della Nutella - e di quel Michele Ferrero che anche quest’anno è il primo italiano nella classifica dei supericchi di Forbes, trentaduesimo con un patrimonio personale di 18 miliardi di dollari - viene considerato più che altro come un doveroso contributo a una «chiamata alle armi» tricolore che difficilmente però si concretizzerà.
Certo, quella della Ferrero è una svolta che impressiona. Per decenni gigante silenzioso e dolcissimo dell’alimentare italiano, sempre impegnato a spingere su nuovi prodotti e processi - nell’ultimo bilancio sono 500 i milioni investiti, il 7,5% dei ricavi - fino a inventarsi dal nulla segmenti di mercato, nel giro di soli quindici mesi Alba esce due volte allo scoperto con progetti di sviluppo che guardano fuori dai confini del gruppo. Segno dei tempi globali e di quelli anagrafici? E’ vero, da una parte ci sono mercati mondiali sempre più integrati e dall’altra una dinastia dove all’ottantacinquenne signor Michele - tuttora padrone indiscusso della Ferrero - si sono affiancati nei ruoli manageriali di punta i figli Pietro e Giovanni, quarantenni dall’orizzonte ampio. Ma resta il fatto che le due partite in successione sono molto diverse tra di loro. Strategica quella per Cadbury, poi abbandonata, che avrebbe consentito di espandersi dal punto di vista geografico nei mercati anglosassoni e da quello di prodotto nei cosiddetti «pastigliaggi», dalle caramelle alle gomme da masticare. Più sfumata nei contorni quella per Parmalat - anche in questo caso, come nel precedente, la Ferrero è assistita da Mediobanca - che non rientra nel «core business» del gruppo. Latte e cioccolato, si teme ad Alba, potrebbe essere una bevanda meno gustosa di quel che si pensi.
Di fatto negli ultimi anni più di una banca d’affari ha portato alla corte dei Ferrero il dossier Parmalat e ogni volta, per una ragione o per l’altra, la famiglia ha deciso di non tentare alcuna operazione. Adesso, invece, la posizione è in apparenza cambiata e la disponibilità ad esaminare una mossa accresciuta. Anche, forse soprattutto, grazie alla spinta del governo. Quel che appare sicuro - e del resto se ne è avuta prova evidente nella ritirata su Cadbury dopo l’Opa ostile di Kraft - è che in casa Ferrero non si intende ingaggiare battaglia per il controllo di un’azienda, tantomeno se non è strategica come appunto nel caso di Collecchio. Altro punto su cui si può scommettere, sebbene dalla Ferrero non trapelino indiscrezioni, è che l’operazione non si potrà fare se gli ingombranti inquilini di Lactalis, oggi accreditati di una quota di oltre il 15%, saranno presenti. Sulla strada per una soluzione nazionale che comprenda Ferrero c’è quindi prima di tutto il decreto protezionista annunciato dal ministro Giulio Tremonti e poi la sistemazione - con il possibile acquisto da parte di Alba - della quota francese. Qui però spunta un nuovo ostacolo: quello della valutazione economica dell’azienda. La corsa agli acquisti di titoli dei vari soggetti che puntano al controllo della Parmalat, da Lactalis ai fondi internazionali, ha portato il titolo a quota 2,6 euro contro un valore delle attività che stime assai più conservative valutano al massimo 2 euro per azione. Roma chiama, insomma, ma la strada che porta da Alba a Parma sembra lunga e tortuosa.