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 2011  marzo 21 Lunedì calendario

CIORAN VIRTUOSO DEL PESSIMISMO

Quando, nel 1937, Cioran arrivò in Francia dalla nati­va Romania era nient’altro che uno studente-stu­dioso di filosofia, poco più che ventenne, ma già in fuga dal suo Paese, dal mondo, dalla vita. In­stallatosi in un alberghetto del Quartiere latino, in rue Racine, forte di una borsa di studio rinno­v­atagli dall’Istituto di cultura non per i suoi lavori, ma per aver gira­to la Francia intera in bicicletta («di lei si può almeno affermare che conosce questa nazione» gli disse il funzionario che gliela fece avere) e usando la mensa della Sorbona come suo ristorate abi­tuale, Cioran riuscì a vivere senza lavorare, suo unico massimo-mi­nimo obiettivo. Quando una leg­ge dello Stato stabilì che dopo i ventisette anni non ci si poteva più iscrivere all’università, l’allo­ra quarantenne studente- studio­so si ritrovò «cacciato da quel pa­radiso », ma non per questo si die­d­e per vinto e accettò le regole del­la società civile che impongono uno stipendio, una carriera, degli obblighi. Al giornalista che nel 1970 lo intervistava confessò: «La maggior parte del tempo non fac­cio niente. Sono l’uomo più sfac­cendato di Parigi. Credo che in questo possa battermi soltanto una puttana senza clienti». Aveva sessant’anni.
Nel centenario della nascita e a un quarto di secolo ormai dalla morte (Rasinari 1911, Parigi 1995) varrebbe forse la pena riflet­tere su questo curioso combina­to- disposto che vedeva uno spre­giatore del genere umano con­dannato però a una formidabile ansia di vivere. Perché esterior­mente non c’è niente in Cioran del lugubre abito apocalittico-ni­chilista indossato da altri pensato­ri, ma al contrario un uomo spiri­toso, beffardo, allegro, pieno di curiosità, compassionevole e por­t­ato a confrontarsi con i suoi simi­li.
E tuttavia, al contempo, è diffici­l­e trovare un altro pensiero così di­struttivo nella sua sistematicità.
Bastano alcune frasi per rende­re un’idea di quanto sopra: «Ho scritto per ingiuriare la vita e per ingiuriare me stesso. Il risultato? Mi sono sopportato meglio, e ho sopportato la vita». «Io non sono pessimista, ma violento… è questo rende che rende vi­vificante la mia negazio­ne ». «Io non ho mai creduto davvero in niente. Non c’è niente che io ab­bia preso sul serio.
L’unica cosa che abbia pre­so sul se­rio è il mio conflitto con il mon­do. Tutto il resto per me è soltan­to un prete­sto ».
In Un apolide metafisico (Adel­phi editore, come tutta l’opera di Cioran tradotta in italiano, per la cura di Mario Andrea Ri­goni), c’è una sua de­finizione­che ne spie­ga bene il modo di es­sere e di pensare: «Io non potrei essere un politico, perché credo nella catastrofe. Per parte mia, sono certo che la storia non è la via al paradiso. Eppure, se sono un vero scettico, non posso neanche esse­re sicuro della catastro­fe… Diciamo che ne sono quasi sicuro! Ecco perché mi sento distaccato da qualsiasi Paese, da qualsi­asi gruppo. Sono un apoli­de metafisico, un po’ co­me quegli sto­rici della fi­ne dell’Im­pero roma­no che si sentivano “ cittadini del mondo”, il che è come dire che erano cittadini di nessun luo­go ».
Questo sentimento di margina­­lità, di fine e di confine è centrale nella sua riflessione filosofico-esi­stenziale: «Ho cercato a lungo di capire come reagissero a certi av­venimenti uomini che non pote­vano diventare cristiani e che sa­pevano di essere perduti. A me pa­re che la nostra situazione, la no­stra posizione, assomigli un po’ a quella degli ultimi pagani prima che si diffondesse il cristianesi­mo, con la differenza, per la veri­tà, che non possiamo più aspet­tarci nessuna nuova religio­ne.
Ma a parte questo ci troviamo nella situa­zione degli ultimi pagani. Vediamo che stiamo per perdere tutto, che forse abbiamo già perduto tutto, che non ci resta un briciolo di spe­ranza, che non possiamo nean­che lontanamente pensare alla speranza. In questo il nostro desti­no è molto più patetico, molto più insopportabile e al tempo stesso più interessante.C’è alme­no questo di positivo nella nostra epoca; io la trovo estremamente interessante, forse troppo interes­sante. Sicché da un lato si può es­sere sfortunati a dover trascorre­re l’esistenza in un posto simile, ma dall’altro è comunque mera­viglio­so assistere all’approssimar­si del diluvio. Mi avrebbe davvero estasiato essere contemporaneo del diluvio».
En attendant la catastrofe, Cio­ran vive e dalla insensatezza del vivere è comunque affascinato: «Il paradosso della mia natura è che provo amore per l’esistenza, ma allo stesso tempo ogni mio pensiero è ostile alla vita. Ho sem­p­re avvertito e intuito il lato nega­tivo della vita, il vuoto di tutto». È anche per questo che i suoi libri hanno spesso effetti spiazzanti, ovvero tonici, corroboranti. La sua visone negativa è fiammeg­giante, è polemica, è ingiuriosa e quindi per certi versi è vitale. Sen­za raggiungere le sue vertigini e la sua profondità, chiunque di noi abbia le sue stesse coordi­nate, ovvero nessuna fede tra­scendente, nessuna propen­sione alla Storia come Pro­gresso, nessuna fiducia nel­la Scienza come risposta ai misteri del mondo, si ritro­va in un universo di cui co­nosce perfettamente en­trate e uscite, nascondigli e spazi aperti.L’universo di chi vive la noia come una compagna, di chi si appassiona a un pro­getto, ma sa che tanto non porterà a niente, di chi assiste disgusta­to alle competizioni per un posto, un pre­mio, un successo, per­ché già ne conosce il fondo amaro, già sa che dopo non ti servi­ranno a niente, di chi è quietamente dispe­rato e avverte il battito inesorabile del Tem­po.
Dice Cioran che «la cosa vera­mente bella della vita è l’avere perso ogni illusione, e cionono­stante fare un atto di vita, essere complici. Essere in totale contrad­dizione con quello che si sa. E se la vita ha qualcosa di misterioso è appunto questo, che pur sapen­do ciò che si sa, si è capaci di com­piere un atto che va contro il pro­prio sapere». In ogni impresa in cui ci mettiamo, in ogni passione che viviamo noi non facciamo al­tro che attingere a questo miste­ro: non è un’illusione, è una con­venzione o, se si vuole, un atto di sopravvivenza, un’accettazione delle regole del gioco pour sapen­do che il gioco è tarato in parten­za, vincitori e vinti sono già stabili­ti.
Proprio perché conosce la vita Cioran è lontano dalla algida per­fezione dei nichilisti puri, di quel­li che costr­uiscono un perfetto si­stema distruttivo che è però squi­sitamente intellettuale, non uma­no, ha a che fare con le idee, ma non con la realtà. Dal confronto con quest’ultima Nietzsche esce pazzo proprio perché, non cono­scendola, ne viene sopraffatto, laddove Cioran, che pure non ha illusioni, ne comprende appieno la potenza seduttrice e sa quando abbandonarsi a essa per meglio rifuggirla poi.Anche l’idea del sui­cidio rientra in questa prospetti­va: «Il pensiero del suicidio è un pensiero che aiuta a vivere. Senza l’idea del suicidio mi sarei am­mazzato subito. La vita è soppor­tabile soltanto all’idea di poterla lasciare quando si vuole. La vita è a nostra discrezione.L’idea che si possa vincere la vita,l’idea di aver in pugno la nostra vita, di poter ab­bandonare lo spettacolo quando vogliamo, è un’idea esaltante».
I libri di Cioran compongono il breviario delle felicità di un infeli­ce, un po’ la condizione esisten­ziale di noi poveri disgraziati con­dannati a morire avendo in boc­ca il gusto di vivere.