GIUSEPPE VIDETTI , la Repubblica 20/3/2011, 20 marzo 2011
NADA - S
embrava un pulcino appena uscito dall´uovo. Era il 1969. Le sorti della musica italiana dipendevano dal Festival. Sul palcoscenico di Sanremo si cantava sul serio. E si moriva. Due anni prima, per protesta contro la canzonetta, il cantautore Luigi Tenco si era sparato in una camera d´albergo dopo l´esclusione del suo brano. Nada (il cognome Malanima era già stato cassato dall´anagrafe pop) ci arrivò a quindici anni. Con un motivetto leggero e vagamente tenebroso che si canticchia ancora, Ma che freddo fa (in coppia con i Rokes). Primo posto in classifica, grande popolarità in mezzo mondo. Il pulcino di Gabbro diventò una star. E non aveva ancora cancellato le immagini che le scorrevano davanti agli occhi quel giorno che il treno la portava da Livorno a Roma. E tutto sarebbe cambiato, la vita, i ritmi, la quieta routine del paesino. Con quel treno Nada lasciò la sua vita per andare incontro a qualcosa di cui ignorava l´esistenza, qualcosa che non aveva sognato né desiderato, qualcosa che altri avevano scelto per lei. Perché quando si nasce poveri i percorsi sono sempre più imprevedibili di quelli che viaggiano tranquilli sul binario dell´ufficio, dell´ambulatorio o della fabbrichetta di papà. Soprattutto negli anni Sessanta. Di quel treno Nada, cinquantasette anni, parla ancora nello spettacolo che i primi dieci giorni di aprile riporterà in giro per l´Italia Musicaromanzo, a ridosso dell´uscita, il 12, del nuovo album Vamp, scritto interamente da lei, masterizzato negli studi di Abbey Road di Londra e suonato con membri di Ardecore e Zen Circus.
Un fiume di parole. Sul palcoscenico come nella vita. Quando racconta, la cantattrice è un torrente in piena. «Questo è uno spettacolo che farò sempre. Sono da sola in scena, racconto cose che non hanno tempo, pensieri, ragionamenti. Qualcosa che ha a che fare col mio secondo libro, Il mio cuore umano», spiega nel foyer del Teatro Vascello di Roma. «Ho incominciato a riflettere sul mio passato... ero una bambina chiusa, molto sola, assetata d´amore, complicata per la sua età... molto attenta agli umori degli altri, a quello che le succedeva intorno. E mi sono accorta che in qualche modo ho continuato a essere così... fino a oggi. È stato facilissimo far riaffiorare tutto». Parla come se stesse sul lettino dello psicoanalista, accarezzandosi i capelli lisci e lunghi come quelli dell´adolescente che poi un Sanremo lo avrebbe anche vinto, nel 1971, con una canzone vagabonda intitolata Il cuore è uno zingaro: «Ebbi un successo pazzesco che non volevo, non capivo; è stata dura per me, soprattutto nei primi anni. Tante cose meravigliose, tanti privilegi… poi, quando sono cresciuta e ho capito meglio, mi sono detta: "Ma io non sono questa qua"... e da quel momento ho avuto anche la voglia di smettere. A quel punto realizzare qualcosa che esprimesse veramente me stessa diventò una sfida. E lì trovai un muro. Il muro di chi non vuole accettare il cambiamento. È stato veramente difficile, ma ho tenuto duro, perché mi pareva impossibile che una persona cresca, cambi, conosca la vita, le cose e si pretenda che resti sempre quella, sempre uguale a se stessa». Non aveva quarant´anni quando abiurò la canzonetta. Ne aveva appena venti. Il tempo di dare in pasto alle hit parade Che male fa la gelosia, un altro suo piccolo classico. Invece di sprofondare comodamente nel pop made in Italy, che allora stava vivendo il suo periodo di gloria, Nada si sentiva il nodo al collo. E non vedeva l´ora di allentare il cappio e darsela a gambe. «Quel che mi ha salvato, oltre al mio carattere, sono state le mie radici», spiega. «Da lì è nata l´esigenza di scrivere la storia della mia infanzia (Il mio cuore umano, 2008), per mettere in chiaro le cose, non solo con me stessa, ma anche con tutto un mondo che non ha capito, che non mi ha accettato. Ho fatto da sola un percorso analitico, quello che uno fa sul lettino dello psic. E ho scoperto che ho una memoria pazzesca... ho recuperato particolari, colori, sensazioni, ansie. Era tutto ancora tutto così presente dopo tanto tempo».
Arriva Gerry Manzoli, compagno di una vita. Le sussurra all´orecchio l´orario in cui andrà in scena. Premuroso, discreto. Come se anche lui non venisse dal pop, come se non fosse stato «il bello» dei Camaleonti, oltre che il bassista della band. «Non lo scelsi mica per caso», scherza Nada. Gerry era a sua volta in rotta di collisione con il successo. Già alla fine degli anni Sessanta sentiva di aver detto quel che c´era da dire. Con Nada fu un incontro karmico. «Io sono pigra. Per lavorare ho bisogno di qualcuno che mi spinga e mi spinga e mi spinga... Senza di lui non sarei niente», ammette. «Ci capimmo al volo. Avevo diciannove anni, ero nel pieno della mia rivoluzione, preda di mille paure e mille incertezze. Lui mi ha aiutata, sia mentalmente che economicamente; perché a un certo punto ho mollato tutto, avevo delle responsabilità, una famiglia e tanta gente che lavorava per me. Sapeva che quella era la strada giusta». Gerry non si vedeva da adulto a far parte del circo dei revival show nelle feste di piazza a ricantare per la millesima volta L´ora dell´amore. Intuì il potenziale di Nada e sacrificò la sua di carriera. «Quando nacque nostra figlia la mia strada era ancora in salita e c´era bisogno di qualcuno che le dedicasse del tempo», dice l´artista. «Se non ho mollato è tutto merito suo. Artisticamente ha creduto più in me che in se stesso. Quando esordii, della musica sapevo meno di zero. Non avevamo neanche la tv in casa e tantomeno il giradischi. Non volevo fare la cantante. Quando, dopo il successo, ho cominciato ad ascoltare musica, erano i meravigliosi anni Settanta e io mi sentivo più vicina al rock che ai cantautori. Sono rimasta un´incompresa proprio perché non costruisco melodie tipicamente italiane e il mio linguaggio è più sintetico, diretto, crudo di quello della canzonetta».
Oggi le ragazzine dell´età in cui Nada fu lanciata da Migliacci farebbero il lecito e l´illecito pur di apparire in tv a far qualsiasi cosa. A lei di tutto quello che le girava intorno non importava nulla. Viveva a Roma e non faceva che pensare a Gabbro. «Quando decisi di cambiare aria, mia madre non capiva. "Hai successo, tutti ti adorano, guadagni quello che vuoi... e all´improvviso non sei più nessuno, non ti vogliono più, non ci sono più soldi... perché?"». Sprofonda nei ricordi: «Una cosa è sicura, io non ho fatto mai nulla per diventare cantante, è successo tutto per la caparbietà di mia madre, una donna molto forte e intelligente che nella sua semplicità - donna di campagna che vendeva i polli in piazza - ha sempre mantenuto la sua famiglia con grande dignità e coraggio. Io la odiavo, l´ho sempre odiata perché ero più chiusa e tormentata. C´è stato sempre questo grande conflitto fra noi, una cosa che ha segnato la mia vita e anche la sua. Alla fine però ho capito che era un bisogno, una dipendenza, tanto quel rapporto era grande e inspiegabile. Magari volevo strozzarla e dirle le cose peggiori, ma la volevo sempre. Ricordo quando mi portò, contro la mia volontà, da un maestro di canto - un suo cliente di polli e verdure della nostra terra - e lui mi iscrisse a uno di quei piccoli concorsi di paese a cantare nelle balere. E lì uno di quei talent scout che andavano in cerca di bambini per lo Zecchino d´oro, mi sentì e disse che voleva portarmi subito a Roma, perché secondo lui avevo una voce pazzesca. E così fu e pochi giorni dopo la mamma e io eravamo sul treno per Roma. Ora è un anno che lei non c´è più... dopo tanti anni di lotte, di rinfacci… Un giorno mi ha detto: "Sai che non sono più così convinta di aver fatto la cosa giusta a farti diventare una cantante?". Aveva capito che per me era stato un percorso di grande sofferenza, che questo mestiere non era come se lo era immaginato lei, allegro e scanzonato».
Alla Rca capirono che non c´era verso di tenerla incatenata alla canzonetta. Fu Ennio Melis, il direttore, che la mise in contatto con Piero Ciampi, cantautore maledetto. Livornese come lei. «Era il mio momento di sbandamento. Ciampi, che si aspettava di incontrare una stronzetta, rimase colpito dalla mia determinazione. Diventò un mio alleato. Riuscì a dare un senso a quella ribellione che avevo dentro alla rinfusa. Mi disse: "Devi uscir fuori da tutto questo, tu hai la poesia dentro"... così scrisse quel disco meraviglioso del quale purtroppo nessuno si accorse (Ho scoperto che esisto anch´io, 1973). Il debutto come attrice avvenne nel Puccini televisivo di Sandro Bolchi (1973). Poi il teatro. «Accadde per caso, grazie a Giulio Bosetti, il mio maestro (Il diario di Anna Frank, My Fair Lady - Pigmalione). Con Fo (L´opera dello sghignazzo) non fu la stessa magia». Qua e là riaffiora il successo pop (Ti stringerò, Amore disperato). Oggi che l´industria del disco offre certezze solo ai protagonisti dei talent show, le sue ancore sono più che mai Gerry, l´isolamento nella casa in Maremma e la scrittura. «Ho in cantiere il grande romanzo», rivela, e allargando il pollice e l´indice fa capire che si tratta di un romanzo voluminoso come l´Ulisse di Joyce. «Sono a metà, una storia incredibile. Ce l´ho tutta in testa. Ma meglio non dir nulla. Io sono una contraddizione umana. A volte vorrei fare, poi divento pigra... tutto e il contrario di tutto, sono depressa, vado a fondo, sono euforica. Solo il rapporto con la natura mi rigenera. In campagna la mente è totalmente libera. La natura è la mia religione. Quando ho bisogno di consolazione, di pace o di preghiera vado nel vuoto di un prato, al sole o sotto un temporale... lì trovo una ragione a tutto, esorcizzo persino la paura della morte. Mia madre la prima volta che venne a trovarmi lassù disse: "Non ho occhi per guardare". Aveva capito che quel posto è la mia salvezza».