ETTORE LIVINI , la Repubblica 21/3/2011, 21 marzo 2011
LAVORO H 24
All´inizio fu il Commodore 64. Poi sono arrivati i cellulari, internet, la banda larga, le mail, i bip-bip dei Blackberry, l´esercito dei tablet, Skype e le teleconferenze. Una manna, garantivano. La chiave hi-tech per liberare dopo millenni l´uomo dalla schiavitù del lavoro consentendogli - come vaticinava John Maynard Keynes - «di dedicargli un massimo di 15 ore alla settimana». Peccato che non sia andata proprio così: le nuove tecnologie ci hanno consentito di moltiplicare la nostra efficienza per quattro (oggi produciamo in 9 ore quello che nel 1950 si faceva in 40) ma il nostro orario d´ufficio non si è accorciato di un secondo. Anzi: il progresso, con buona pace di Keynes, ci ha portato dritti-dritti tra le braccia della "24-hours economy", come dicono gli inglesi. Un´era in cui non solo si lavora di più - da metà anni ‘70 il tempo passato alla scrivania o in fabbrica ha ripreso ad allungarsi - ma soprattutto non si riesce più a staccare la spina: ogni sera spegniamo il computer, timbriamo il cartellino e rientriamo in famiglia. Ma l´ufficio - complici le meraviglie della tecnica - viene a con noi.
Sotto forma di una pioggia di mail, videochiamate, file e documenti da controllare mentre si cambiano i pannolini ai bambini, l´arrosto in forno manda un preoccupante odore di bruciato e il cane, nervosissimo, scodinzola davanti alla porta in attesa della passeggiatina serale.
Benvenuti nel secolo del lavoro senza confini (di tempo). Dell´ufficio virtuale - un uomo, il suo telefono e il suo pc - aperto ventiquattro ore su ventiquattro e sette giorni su sette. Un mondo dove i paletti tra dovere e piacere sono saltati, così come - spesso - quelli tra giorno e notte. Il tran-tran dell´orario 9-17 è solo un bel ricordo: ci si sveglia compulsando dal letto (per lavoro) la posta elettronica, ci si addormenta cullati dal tenue chiarore di un foglio Excel sull´IPad, per poi alzarsi a metà notte per una teleconferenza con Seattle. Una rivoluzione che poco alla volta sta stravolgendo metabolismo e abitudini di mezzo mondo mettendone a rischio non solo le relazioni sociali ma pure, dicono gli esperti, la salute.
Il primo allarme sulla rivoluzione silenziosa del lavoro no-limits è stato lanciato, non a caso, della Organizzazione mondiale della Sanità. Al mondo, dicono le statistiche dell´International Labor Organization, un dipendente su cinque è impegnato oggi più di 48 ore alla settimana. Uno zoccolo duro cui si è aggiunto adesso l´esercito di stakanovisti costretti da Blackberry & C. a spalmare sulle 24 ore la propria reperibilità professionale. L´Oms ha sottoposto a uno screening scientifico queste categorie di persone e alla fine, dati inconfutabili alla mano, ha inserito il lavoro fuori orario tra le possibili cause di rischio sanitario con un aumento dal 30 all´80% della possibilità di contrarre patologie tumorali.
Per gli esperti si tratta solo di una conferma. Il Giappone - dove la fedeltà e la produttività di un dipendente sono direttamente proporzionali al tempo che passa inchiodato alla scrivania o incollato allo schermo del pc da casa - è stato costretto a coniare un termine ad hoc, karoushi, per definire le morti causate da overdose da lavoro. Diverse grandi aziende hanno pagato indennizzi stratosferici alle famiglie degli impiegati spremuti come limoni e poi stroncati dagli straordinari. E oggi tutti i big della Tokyo Spa, imparata la lezione a colpi di yen, hanno imposto paletti rigidissimi alle ore di lavoro extra, compreso quelle sbrigate a domicilio. Altrove si preferisce prevenire. La Corea - recordman mondiale nel campo con 2.301 ore all´anno di lavoro a testa, il 33% in più dell´Italia - ha molto prosaicamente varato un «procreation day». Un giorno in cui tutti sono costretti a tornare a casa alle 19 di sera e a non accendere più pc o telefonini fino al mattino seguente. Obiettivo dichiarato: dedicarsi ai piaceri (dimenticati) della vita coniugale e, possibilmente, a mettere in cantiere nuove braccia per l´economia del Paese.
La scienza del resto, parla chiaro: l´uomo (e gli animali) non sono fatti per lavorare 24 ore su 24. I ritmi circadiani del nostro metabolismo sono uno strumento complesso, calibrato con il bilancino: abbiamo almeno un centinaio cicli vitali - dalla temperatura alla produzioni di enzimi fino all´attività cerebrale - legati a filo doppio all´alternanza giorno-notte, con alti e bassi nei loro valori che condizionano di molto la nostra efficienza mentale. Farli saltare, come accade nella 24 hours economy, significa non solo mettere a rischio la salute, ma pure (un argomento che le leggi del capitalismo capiscono molto bene) ridurre drasticamente la produttività.
La Queen Mary University di Londra, nel dubbio, ha provato a testare le capacità al riguardo del più indefesso dei lavoratori del regno animale: le api. Gli scienziati inglesi hanno applicato identificatori radio sul corpo di 1.049 «operaie» di un alveare in Finlandia nell´estate artica, quando tutte le piante sono in fiore e il sole brilla in cielo 24 ore su 24. Risultato: «Malgrado la possibilità di lavorare senza interruzione, gli insetti si ritiravano a riposare nei favi dalle 23 di sera fino alle 8 del mattino - spiega Ralph Stelzer, uno dei coordinatori dell´esperimento - dimostrando che il beneficio del riposo in termini di produzione di miele è superiore a un orario di lavoro allungato sull´intera giornata». La stessa conclusione cui era arrivato grazie al suo intuito Henry Ford, storico fondatore dell´omonima casa automobilistica americana, il primo tra i grandi tycoon a stelle e strisce a tagliare unilateralmente la durata della giornata lavorativa dei suoi dipendenti: «Se non hanno tempo per divertirsi e consumare chi comprerà mai le nostre macchine?», diceva. Concetto su cui oggi, a forza di dimostrazioni con algoritmi, concordano persino i cervelloni di Harvard e del Mit.
«Un buon equilibrio tra lavoro, riposo e tempo libero è il segreto di un´economia che funziona», assicura Jon Messenger dell´Ilo. I numeri confermano: la spagnola Iberdrola ha eliminato due ore di pausa a metà giornata (il corrispondete della vecchia siesta) consentendo ai suoi dipendenti di tornare a casa alle 16 di pomeriggio, registrando un´impennata di produttività e un netto calo dell´assenteismo. La città di Houston ha varato il piano «Flex in the city», convincendo molte imprese locali a liberalizzare l´orario d´ingresso per ridurre il traffico e facilitare i viaggi dei pendolari. Risultato: ingorghi a picco e un taglio del 58% per lo stress misurato sui lavoratori.
«Non c´è dubbio che il mondo si è globalizzato e che le tecnologie ci consentono e in qualche modo ci costringono a rivedere la flessibilità dei nostri orari», ammettono alla Ilo. Ci vogliono più negozi aperti anche la notte. Qualche conference call fuori orario va messa in conto. Ma la 24-hours economy, se non altro per puri motivi di salute, «non può diventare la regola». In fondo gli studi antropologici condotti in questi anni sulle tribù dei Machiguenga, nell´Amazzonia, dimostrano che Keynes, invece che guardare avanti, avrebbe fatto meglio a guardare indietro. I fieri indios peruviani dedicano al lavoro (nel loro caso la caccia) 4 ore e 56 minuti in media al giorno. Poi, felici, pensano solo a se stessi. Nel mezzo della foresta pluviale, per loro fortuna, non c´è campo per il Blackberry.