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 2011  marzo 21 Lunedì calendario

IL PARADOSSO DEL NEOPACIFISMO

«Lo scatolone di sabbia», così l’anti-interventista Gaetano Salvemini chiamava la Libia, ai tempi della spedizione italiana del 1911, ha rivoluzionato la politica italiana. E capovolto le abituali categorie. Chi è sempre stata pacifista, anche fino alla miopia, cioè al «ciecopacifismo», secondo la definizione del politologo Giovanni Sartori? La sinistra arcobaleno. E chi, dalla guerra del Golfo del ’91, a quella contro l’Afghanistan e a quell’altra contro Saddam nel 2003, ha sempre intonato l’«armiamoci e partiamo»? La destra occidentalista e pentagonale.
Ora, però, il ribaltone. Azzurri neutralisti, democrat bellicisti. I «se», i «ma», i «dubbi» e i «rischi» (espressioni ricorrente sulla stampa berlusconiana: «Il rischio dell’esplosione del terrorismo», «il rischio che arrivino in Italia milioni di profughi libici»...) sono passati dalla retorica progressista a quella destrorsa. Basta andare sui siti del Pdl e del Pd, per vedere il testacoda. «L’Italia aborrisce la guerra - scrive un berlusconiano on line - e questo sta scritto nella nostra Costituzione. Ma voi ve lo siete dimenticato. Gridiamo tutti insieme: no alla guerra preventiva!». Parlavano così Franca Rame e Dario Fo, o l’indimenticabile Turigliatto, durante le scorse missioni di guerra e non i tifosi del Cavaliere amicissimo del cowboy Bush (ma anche baciatore della mano di Gheddafi). O ancora: il neutralismo azzurro spinge un gruppo di militanti del Pdl che si firmano «Il Trio Lescano» a sfogarsi così nei confronti di La Russa e di altri falchi dell’interventismo di governo, che vogliono ”spezzare le reni al Rais” e che anche Berlusconi considera troppo vogliosi di scatenare i cacciabombardieri: «Ma che v’ha fatto Gheddafi? Ci ha dato gas e petrolio, e combatte terrorismo e clandestini. Che cosa volete di più?». Nel sito del Pd, tutti, o quasi, allineati e coperti, marciano sulla linea militare del partito: «Fermiamo il massacratore Gheddafi subito e in tutti i modi». E pensare che buona parte del popolo della sinistra riformista, allineato in quel caso con il radicalismo ultra-pacifista alla Gino Strada, ai tempi della missione voluta dal governo D’Alema in Kosovo nel ’99 sbeffeggiava il «Caporal Baffino» come una sorta di «Dottor Stranamore» che giocava alla guerra. Mentre ora tornano, con altri parole, gli umori dell’interventista Giovanni Pascoli, ai tempi della guerra libica dell’Italia giolittiana: «La grande proletaria s’è mossa».
Di qua, sono in pochi (rifondatori comunisti, Cgil, Pdci, Marco Rizzo e ovviamente anche Emergency) a sposare in pieno il concetto che dovrebbe essere ovvio da sempre, secondo cui: la pace non può essere un valore supremo, anche a costo della libertà. Osserva Nichi Vendola: «La domanda di libertà dei libici non può essere repressa con il terrore, nel nome della non ingerenza in un Paese sovrano. Allora io mi chiedo: siamo capaci noi, nel mondo multipolare, di soccorrere le popolazioni aggredite?». Un embedded d’ogni crociata militare berlusconiana e bushista, Giuliano Ferrara, si scopre di colpo un moderato, ai limiti dello scetticismo, sostenitore di questa guerra. Che «non va chiamata umanitaria» ed è «politicamente dubbia, senza prospettive certe, piena di ambiguità». La destra che marciava compatta con Bush, ha la tentazione di disertare nei confronti di Obama: e nel caso della Lega (seconda gamba della maggioranza di governo) e dei Responsabili (neo-terza gamba del berlusconismo) si defila platealmente. La sinistra che considerava terroristiche le guerre di George W., ritiene viceversa «giusta» e «democratica» questa di Obama. E se ancora esistessero le Brigate Internazionali, quelle che andarono in Spagna a combattere contro Franco nel 1936-39, magari qualcuno si arruolerebbe non più in «Omaggio alla Catalogna» (titolo del libro splendido di George Orwell) ma in nome della libertà del popolo libico dalle grinfie dell’Orco di Tripoli. Sul fronte opposto. Il futurismo, si sa, è stato guerrafondaio. E tuttavia, il futurista Vittorio Sgarbi sembra diventato uno alla John Lennon: «Give Peace a Chance». Lo vedremo mettere i fiori nei cannoni di La Russa? E «Il Giornale», in linea con gli umori del fratello del suo editore: «Costretti alla guerra». E «Libero»: «La lotta contro Gheddafi è un pretesto. Tutti in guerra per salvare Obama e Sarkò».
Proprio il Rais ha compiuto lo strano miracolo. La sinistra che si divide su tutto, anche sulle minuzie autoreferenziali, stavolta appare compatta (al netto di qualche «ciecopacifista») sul terreno più divisivo e lacerante che esista: la pace e la guerra. E ancora. L’Italia spaccata su tutto, e incapace di posizioni bipartisan in Parlamento, in questo caso si riunisce in maniera trasversale, nonostante le cautele berlusconiane, intorno al dovere di dare all’Italia un «ruolo attivo» (parole di Bersani) in quello che il presidente Napolitano chiama il «Risorgimento libico».
Gheddafi, orribile satrapo sanguinario, repressore intollerabile del suo popolo che chiede democrazia, inconsapevolmente e senza alcun merito sta insomma facendo fare un salto in avanti, sulla via delle decisioni condivise, alla politica nostrana notoriamente incapace trovare intese anche sulle questioni cruciali della politica estera.
E tuttavia, molti esperti di strategia militare - categoria professionale per lo più non tendente a sinistra - sono contrari a questa guerra. E si chiedono: chi sono e che cosa vogliono i ribelli anti-Rais? Come si sviluppa l’azione militare? Chi sarà l’erede del dittatore? Domande che risuonano in ogni angolo della cautelosa destra nostrana, pur impegnata ufficialmente al fianco della coppia Obama-Sarkò, forte del bollino Onu.
Per ora, le strade italiane sono ancora imbandierate con i tricolori appesi per la festa del 17 marzo. Di vessilli arcobaleno, invece, neanche l’ombra. A meno che non comincia a piazzarne qualcuno, a cominciare dalla sua casa di Gemonio, Umberto Bossi. Con il silenzio-assenso del Cavaliere la cui guerra a Gheddafi, a chi conosce i pregressi rapporti, può sembrare una scena degna di «Scherzi a parte».