VITTORIO ZUCCONI , la Repubblica 21/3/2011, 21 marzo 2011
QUANDO LO SLOGAN SEGNA IL CONFLITTO - FURONO
«Artigli d´Aquila» e «Giustizia Infinita», scudi d´acciaio e tempeste di sabbia, furia e incudine, le operazioni militari americane, prima di stemperarsi nel rosa di questa curiosa "aurora" di guerra sulla Libia. Anche se più che un´Odissea, l´attacco contro Gheddafi sembra un´Iliade. Quel nome omericamente tenero, quell´«alba dalle rosee dita» tradisce il pochissimo entusiasmo dell´America per questa euroguerra.
E tradisce magari una certa voglia di tornarsene in fretta nella propria Itaca lontana. Dopo un trentennio di etichette retoriche e tronfie, appiccicate dal Pentagono su ordine della Casa Bianca, un´operazione militare americana non suona come uno squillo di tromba per titoli di telegiornale, ma come un sospiro nostalgico.
Da quando la presidenza di Jimmy Carter ebbe l´idea di attribuire alla disastrosa e fallita spedizione in Iran per salvare i diplomatici ostaggi di Khomeini nel 1980 il roboante nome di «Artiglio d´aquila», ogni presidente, repubblicano o democratico, si è sentito in dovere di trovare almeno un bel titolo per vendere al mondo i romanzi e i film delle sue guerre. Incurante del ridicolo, Ronald Reagan, che da ex attore di titoli s´intendeva, approvò quell´«Urgent Fury» per sloggiare dall´isolotto caraibico di Grenada una minacciosa armada di filo castristi, risultata poi meno numerosa e peggio armata della polizia di una piccola città americana. Soltanto per bombardare proprio Gheddafi, Reagan tornò a un dolce e generico «Operazione El Dorado Canyon», che a lui piaceva per il gusto western, un´attrazione turistica in Colorado. Ma da allora è stato un crescendo wagneriano di retorica made for tv, costruita per il consumo del pubblico interno e mondiale.
George Bush il Vecchio lanciò le truppe a Panama per catturare Noriega all´insegna della «Giusta Causa», prima di dover erigere in fretta uno «Scudo nel Deserto» contro Saddam Hussein nel 1990 e farne poi la spada per la «Tempesta nel Deserto», l´anno dopo. Bill Clinton, sedotto dalla pomposità e dall´efficacia pubblicitaria di queste formule, volle dimostrare la «Infinite Reach», la portata infinita, della potenza Usa, scagliando missili Cruise contro una fabbrica di aspirine in Sudan, scambiata per un laboratorio di armi chimiche, e poi contro un accampamento di presunti jihadisti nel nulla dell´Afghanistan, provocando quella che Bush il giovane avrebbe poi irriso come «una strage di cammelli». Per farsi perdonare, Clinton organizzò la fallita operazione «Restore Hope», riportare speranza, in Somalia, dalla quale riportò soltanto bare di zinco, non prima di avere riconquistato un po´ di autostima marziale con la «Nobile Incudine», il sonoro nome in codice del bombardamento sulla Serbia.
Quest´ansia di inventare slogan da vendere ai media, alle tv satellitari, ai giornali che altrimenti se li sarebbero pericolosamente creati da soli, tradì George Bush quando approvò uno sciagurato soprannome per l´invasione dell´Afghanistan, dieci anni or sono: «Giustizia Infinita». Offese i devoti di ogni Dio nella sua empia presunzione e sollevò lo spettro della crociata. Fu rapidamente corretta nel più umile «Libertà Duratura». E al momento di invadere l´Iraq, la lezione fu ricordata e utilizzata con il banale programma di portare «Libertà per l´Iraq».
Il ritorno di oggi a formule più enigmatiche e anodine, come quell´«Alba dell´Odissea» usato per il versante americano della guerra in Libia - per ora soltanto aereonavale - segnala un raffreddamento della prosopopea da spot pubblicitario e involontariamente la riluttanza americana per questa impresa. E indica un ritorno al passato, con la sua mancanza di significati precisi.
Nella tradizione militare, quando la pressione delle tv satellitari e di Internet 24 su 24 non surriscaldava l´immaginazione di governanti e di generali, alle missioni di guerra venivano dati nomi il più possibile casuali e insignificanti, per non offrire al nemico alcun aiutino o indicazione. A Winston Churchill fu concesso di scegliere il titolo, un po´ tronfio ma vaghissimo, per lo sbarco in Normandia, l´operazione «Overlord», ma almeno fino ai disastri vietnamiti le etichette rimasero generiche.
Nel Nord Africa gli Alleati sbarcarono con l´operazione «Torcia», Torch. In Sicilia fu «Husky», il cane da slitta, animale assai poco frequente in quell´isola, e il piano per la colossale invasione del Giappone mai attuata portava l´ingannevole etichetta di «Olympic», la grande festa della pace. Mentre la costruzione delle prime bombe atomiche passava sotto l´indifferente indirizzo dell´isola dove si trovava l´ufficio del generale responsabile del progetto: «Manhattan». Il più violento e martellante attacco aereo sul Nord Vietnam fu ordinato da Nixon con la designazione fuorviante e generica di «Linebacker», che nel football americano è un ruolo di difesa, non d´attacco.
Erano scelte fatte a caso, suggerite da impiegati civili o da militari, poi generate automaticamente dai computer e approvate dai capi, per controllare che inavvertitamente non tradissero la natura, il teatro o i tempi dell´operazione militare. L´obiettivo era il compimento della missione, più che la propaganda, e l´etichetta non aveva altra importanza che la sintesi e il riconoscimento immediato fra gli addetti ai lavoro. Non c´era bisogno di immaginifici creatori di spot, bastava la sobrietà della propria forza, quando l´America sapeva di non avere rivali o di dover strappare il consenso nei sondaggi per le sue imprese. Ma alla partenza di questo suo ennesimo viaggio verso l´ignoto di una guerra che è appena all´alba, l´Ulisse americano del 2010 suona semmai crepuscolare.