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 2011  marzo 20 Domenica calendario

IL GOVERNO DEI MAGISTRATI

«Un giorno mi chiama al telefono. Io ero a Roma. Sento per la prima volta la sua voce direttamente. Dott. Di Pietro, sono Silvio Berlusconi: le sto parlando dall’ufficio del presidente della Repubblica. Vorrei incontrarla perché mi interessa averla nella mia squadra». L’anno è il 1994. È il primo contatto tra l’allora pubblico ministero di Mani pulite e l’allora presidente del Consiglio in fieri. Nel frattempo il primo ha cambiato mestiere, il secondo non ancora.
Il virgolettato è di Antonio Di Pietro, e «il giudice Tonino» - come lo chiama il suo ex amico Mario Di Dominico - è uomo d’onore, possiamo quindi credergli. È tratto dal libro-intervista che gli fece Giovanni Valentini nel 2000.
Ma non è l’ormai nota offerta del Cavaliere a quello che diventerà il suo più acerrimo nemico («Io a quello lo sfascio!») che qui interessa, quanto il prosieguo di quel racconto che getta una luce chiarificante sulla polemica innestata in questi ultimi giorni dal comizio anti-berlusconiano del pubblico ministero palermitano Antonio Ingroia e dalle parole di fuoco di un altro rappresentante dell’ordine dei magistrati, il segretario della loro associazione sindacale Giuseppe Cascini, il quale è intervenuto a gamba tesa nel dibattito politico italiano dichiarando che «questa maggioranza non ha la legittimazione storica, politica, culturale e anche morale per affrontare la riforma costituzionale della giustizia».
I ricordi degli anni eroici di Mani pulite, affidati da Di Pietro a Valentini, documentano per sua stessa ammissione quello che pervicacemente ogni toga rifiuta di ammettere: che molti magistrati in questo paese se ne fregano della divisione dei poteri e fanno tranquillamente politica. E questo succede ormai (almeno) da vent’anni.
Ecco come va avanti la ricostruzione di quegli avvenimenti del 1994, sempre con le parole di Di Pietro.
«Riattacco il telefono e telefono a Borrelli e gli racconto tutto. Il procuratore prima mi chiede che cosa ho risposto, poi mi dice: “Ti consiglio di non accettare”, o qualcosa di simile. Ma - sia chiaro a scanso di equivoci - il suo suggerimento era legato alla necessità di proseguire l’inchiesta, di andare fino in fondo, di non lasciare il lavoro a metà».
Non si sa come prenderla questa precisazione di Di Pietro sulle reali intenzioni - «a scanso di equivoci» - del procuratore capo di Milano e su cosa voglia dire quel «non lasciare il lavoro a metà». Le date possono, forse, aiutare.
Il primo governo Berlusconi ha giurato il 10 maggio 1994, le elezioni si sono svolte il 27 e 28 marzo precedenti, l’incarico di formare il governo fu affidato al Cavaliere il 28 aprile. La telefonata «dall’ufficio del presidente della Repubblica» Oscar Luigi Scalfaro sarà arrivata a Di Pietro verosimilmente negli ultimi giorni di aprile di quell’anno. Cinque mesi dopo, l’8 ottobre 1994, la Procura di Milano recapitava via Corriere della sera a Silvio Berlusconi, che presiedeva a Napoli un convegno internazionale sulla legalità nell’ambito del G7, il famoso invito a comparire. Cosa intende Di Pietro quando dice che il suo capo non voleva «lasciare il lavoro a metà» e che per questo gli sconsigliava di entrare nel governo Berlusconi?
Di quella telefonata tra Di Pietro e Borrelli sono possibili le più disparate interpretazioni, non esenti da partigianeria. Quella seguente invece, tra Di Pietro e Piercamillo Davigo, suo collega nel pool di Mani pulite, non lascia dubbi.
«Subito dopo la telefonata di Berlusconi, avevo chiamato Davigo per consultarmi anche con lui. Entrambi ci siamo chiesti: possiamo fidarci politicamente di Berlusconi? Fummo d’accordo che non ci si poteva fidare. Ma il problema era se conveniva lasciare fare il ministro degli Interni a qualcun altro che poteva rivelarsi un nemico di Mani pulite oppure andarci io personalmente, proprio per non correre rischi. In quella conversazione, Piercamillo lasciò la porta aperta a entrambe le soluzioni, con una prevalenza per l’ipotesi negativa. Ricordo le mie valutazioni a caldo con Davigo: “Rilanciamo - gli dicevo -, se ci danno gli Interni e la Giustizia, siamo tranquilli che nessuno potrà imbrigliarci, questo diventerebbe il governo di Mani pulite”. Ma non c’era lo spazio per tutti e due. Ed è qui, per quanto mi riguarda, che è scattata in me la decisione di rinunciare alla proposta. Se il Polo avesse offerto concretamente anche a Davigo di entrare nella squadra di governo, allora mi sarei orientato ad accettare».
«Il governo di Mani pulite». Ecco il progetto “politico” del magistrato Antonio Di Pietro sette mesi prima di togliersi platealmente la toga il 6 dicembre 1994. Sarebbe stato, quello, un governo di cui oggi Giuseppe Cascini direbbe che ha «la legittimazione storica, politica, culturale e anche morale per affrontare la riforma costituzionale della giustizia»? Credo di sì. Di legittimazione, però, gliene sarebbe mancata una, quella delle urne. Quella «sovranità che appartiene al popolo» che tutte le volte che si esprime in modo difforme dai desiderata delle élites (togate e culturali) di questo paese viene bollata di populismo. Non che l’allure politica del Cavaliere di Arcore sia scevra da questa tentazione, ma ha avuto finora il conforto dei risultati elettorali, «esercitati nelle forme e nei limiti della Costituzione».
L’offesa (con rettifica pusilla) di Giuseppe Cascini, un uomo che la Costituzione oltre che applicarla dovrebbe conoscerla, non è a Silvio Berlusconi e al suo governo, ma a tutti colori che hanno partecipato alle elezioni (abbiano votato a destra, a sinistra o scheda bianca) determinando così la maggioranza politica che ha piena legittimità a governare questo paese.
Se una riforma della giustizia servisse anche solo a dissuadere da questi sconfinamenti irrispettosi della democrazia chi ha il delicatissimo potere di decidere della libertà delle persone, sarebbe la benevenuta.