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 2011  marzo 20 Domenica calendario

VITA DI CAVOUR - PUNTATA 84 - VARCARE IL TICINO

Mi pare che alla fine delle Cinque giornate i milanesi vinsero. Intanto la rivoluzione s’era allargata a Varese, Como, Bergamo (Spellanzon: «il 19 si vide un cappuccino armato di spada trascorrere le vie della città»), Lecco, Brescia, Cremona. E in Veneto: Padova, Vicenza, Rovigo, Treviso, Udine. Città sulle cui torri sventolavano le bandiere tricolori. A Padova «si alzavano a trofeo, sui bastioni, gli stivali levati dai piedi. E gridavasi: “viva lo stivale”». A Venezia Manin aveva preso l’Arsenale e proclamato la Repubblica. Eccetera. Ai nostri fini è importante soprattutto capire come ragionassero, in un momento simile, a Torino.

Come ragionavano? Carlo Alberto tentennava, naturalmente, non del tutto a torto, stavolta. Aveva l’esercito dislocato dall’altra parte, sulla frontiera occidentale, perché della Francia repubblicana non c’era da fidarsi. L’ambasciatore russo venne a dirgli che non s’azzardasse a far la guerra, sarebbe entrato in campo, a difesa dell’Austria, anche lo zar. Idem il prussiano. Freddo pure Abercromby, l’inglese: Palmerston voleva bene agli italiani, ma un conflitto era un’altra cosa. C’era poi quel vecchio trattato con l’Austria, roba di vent’anni prima, ma ancora valido. Torino e Vienna, a rigore, erano alleati. Sarebbe anche stato necessario capir bene le intenzioni dei milanesi: o non andrò a far la guerra laggiù - pensava il re - per vedermi poi proclamata la repubblica? C’erano due milanesi a Torino, in quel momento, il conte Carlo D’Adda e il conte Enrico Martini, che gli chiedevano aiuto, e Carlo Alberto disse appunto a D’Adda: «Sicché io dovrei andare a Milano a proclamare la repubblica?», sentendosi rispondere: «Certo è che la repubblica sarà proclamata se Vostra Maestà non si muove». Genova era in subbuglio, Torino attraversata dalle manifestazioni che chiedevano di portar soccorso ai fratelli milanesi, quell’esitazione stava mandando in malora tutto il prestigio guadagnato con la concessione dello Statuto. Ai soldati e agli ufficiali che continuavano a frequentare i portici e i caffè, i torinesi davano addosso: «Che fate qui? Perché non siete là?». Correva voce che qualche reggimento fosse entrato in Lombardia senza aspettar ordini, certamente c’erano volontari che dal Piemonte, di notte, aggiravano i comandi e questi comandi erano sabaudi… Ci sarebbe voluta almeno una ragione formale, un pretesto. Il re disse proprio ai due milanesi di tornare a Milano e farsi preparare una richiesta d’aiuto da un qualche governo provvisorio (avranno messo in piedi, almeno, un governo provvisorio). Tornassero con quella, e i sardi avrebbero aiutato. Intanto i giornali picchiavano: la «Concordia» e il «Messaggiere» erano per la guerra, che si rompessero gli indugi.

Il «Risorgimento»? Per la guerra, benché Cavour fino a pochi giorni prima fosse stato per la prudenza massima, date fra l’altro le condizioni non felici dell’esercito. Ma il 23, quando ancora non si sapeva come fosse finita a Milano, pubblicò il suo articolo più famoso, tre colonne intere in prima pagina. Cominciava così: «L’ora suprema della monarchia sarda è suonata, l’ora delle forti deliberazioni, l’ora dalla quale dipendono i fati degli imperi, le sorti dei popoli. In cospetto degli avvenimenti di Lombardia e di Vienna, l’esitazione, il dubbio, gl’indugi non sono più possibili; essi sarebbero la più funesta delle politiche. Uomini noi di mente fredda, usi ad ascoltare assai più i dettami della ragione che non gl’impulsi del cuore, dopo di avere attentamente ponderata ogni nostra parola, dobbiamo in coscienza dichiararlo: una sola via è aperta per la nazione, pel Governo, pel Re. La guerra! La guerra immediata, senza indugi!» . Raccontava che «i volontari hanno già varcato le frontiere: i nostri concittadini fabbricano e spediscono apertamente munizioni ai milanesi» . E continuava: « Non si tratta quindi di decidere se le ostilità si abbiano o no da cominciare. La sola questione è di sapere se ci dichiareremo lealmente, altamente per la causa dell’umanità e dell’Italia, o se seguiremo per lungo tempo le vie tortuose di una politica di ambagi e di dubbi. […]Siamo in condizion tale, in cui l’audacia è la vera prudenza; in cui la temerarità è più savia della ritenutezza […]Quando non avessimo sulle frontiere che 5.000 uomini, questi dovrebbero correre su Milano. Forse questi sarebbero battuti; è possibile, quantunque non lo crediamo probabile; ma questa mossa ardita costringerebbe gli austriaci ad abbandonare Milano, permetterebbe alla città di provvedersi di viveri e di munizioni; la metterebbe in stato di continuare l’eroica resistenza, che ci tiene tanto dolorosamente sospesi da più giorni. L’effetto morale di un principio di ostilità, la salvezza di Milano varrebbe più per la causa italiana, che non le nuocerebbe la sconfitta di 5.000 uomini» . La guerra scoppiò, se non ricordo male. Sì, la Prima guerra d’indipendenza. Proprio quel giorno 23 Martini tornò da Milano annunciando che gli austriaci erano stati cacciati e Radetzky preparava la controffensiva da Verona. Martini aveva la richiesta d’aiuto, firmata dal governo provvisorio. Le truppe sarde varcarono il Ticino quella sera stessa.