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 2011  marzo 21 Lunedì calendario

Einaudi, la libertà è figlia del profitto - L’ uomo libero «a nessuna cosa pensa meno che alla morte; e la sua sapienza è una meditazione non della morte, ma della vita»

Einaudi, la libertà è figlia del profitto - L’ uomo libero «a nessuna cosa pensa meno che alla morte; e la sua sapienza è una meditazione non della morte, ma della vita». Così la Proposizione 67 nella parte IV dell’ Ethica : questa è la caratterizzazione che dà Spinoza dello Homo liber . È persino ovvio come con queste parole il filosofo di Amsterdam rompesse con quella parte della tradizione cristiana, soprattutto cattolica, che vede nella sofferenza un merito per la libertà (nell’altro mondo) e che sceglie come proprio simbolo non tanto la croce, che pure è uno strumento di tortura, quanto il crocefisso, cioè un corpo umano raffigurato nel momento dello strazio maggiore, strazio che usualmente si nobilita con il nome di «passione». Homo liber : non a caso Spinoza è anche il teorico della funzione «liberale» dello Stato (per lo meno secondo molti autorevoli commentatori). Sia chiaro: quella libertà in termini di autonomia strettamente individuale che l’autore del Trattato teologicopolitico (1670) rivendica è relativa all’espressione delle idee, all’iniziativa economica e alla scelta di qualunque stile di vita purché sia «fatta salva la pace dello Stato». Forse il concetto di salvaguardia della «pace dello Stato» è in Spinoza più vincolante della semplice richiesta di assenza di danno ad altri che è stata formulata dalla tradizione radicale di lingua inglese già ai tempi del Commonwealth cromwelliano, per non dire dei Padri fondatori nell’esperimento democratico più rilevante dell’Occidente, la formazione degli Stati Uniti a partire da tredici colonie del Nord America ribelli alla madre patria. «Pace dello Stato», «assenza di danno ad altri»: due principi che bene esplicitano un’idea laica di società libera. Per molti dei nostrani «illusionisti dell’identità» si tratterebbe di una sorta di pianta esotica che difficilmente può attecchire nel contesto italiano, pur se si concede che abbia dato qualche frutto al di qua e al di là dell’Atlantico, da Thomas Paine e Thomas Jefferson a Theobald Wolfe Tone sino alla coppia Harriet TaylorJohn Stuart Mill, per non dire del figlioccio di quest’ultimo lord Bertrand Russell - una lista cui andrebbero aggiunti non pochi intellettuali anglicizzati o americanizzati come, tra i miei preferiti, Rudolf Carnap, Karl Popper e Paul K. Feyerabend. Nonostante una buona strategia di traduzioni, sembra tuttavia che in Italia questa corrente intellettuale sia rimasta sostanzialmente estranea non tanto al dibattito accademico quanto al confronto politico, alle concrete opzioni pubbliche, alla discussione delle scelte etiche. Raramente mi è capitato di cogliere, in quelle rare occasioni in cui vengono messi a fuoco i pro e i contro di politiche pubbliche (aborto e divorzio, ma anche eutanasia, fecondazione assistita, e via dicendo), posizioni ed elaborazioni che rimandino all’individualismo radicale ma responsabile fulcro della tradizione sopra descritta, così ben illustrata dalla concezione spinoziana dell’ Homo liber . Eppure…: «Si può immaginare una società in cui nessuno corra rischi; in cui siano aboliti professionisti liberi, artigiani indipendenti, imprenditori in cerca di profitto. Abbiamo in tempi moderni conosciuta quella società, ed essa ha posseduto e possiede una ideologia. Gli uomini si sono chiamati Mussolini, Hitler, Stalin; l’ideologia ha assunto diversi nomi, ma tutti si riassumono in una formula: il tiranno conosce e, conoscendola, afferma la verità, la verità vera, quella verità a cui tutti devono rendere omaggio». Questa tirannia è «livida e lurida». Ma non sono parole di un Popper o di un Feyerabend (o magari di un von Hayek), bensì di Luigi Einaudi, che non solo indicava la degenerazione ma contrapponeva l’alternativa: «Gli onorari liberamente pattuiti e pagati in compenso di un servizio eventualmente reso dal professionista, i guadagni incerti degli artigiani e dei commercianti, ed i profitti aleatori degli imprenditori debbono continuare ad esistere, se il sistema economico voglia serbarsi elastico, atto a subire le variazioni continue della tecnica, delle invenzioni industriali; se si vuole che la società umana muti e cresca». Queste parole sono tratte da una predica inutile «in lode al profitto», inteso come condizione essenziale «perché il pensiero possa liberamente avanzare alla conquista della verità», ovvero «perché gli uomini intraprendenti possano continuamente rompere la frontiera del noto […]e muovere verso l’ignoto, verso il mondo ancora aperto all’avanzamento materiale e morale dell’umanità». [...] Quello dell’ indipendenza che è non solo autonomia economica e politica, ma anche e soprattutto «indipendenza di pensiero e di carattere», è tema ricorrente nella riflessione einaudiana. In scienza come in politica il consenso va costruito attraverso il dissenso, altrimenti non si può che finire in una delle tante versioni, magari «democratiche», del totalitarismo. Ma invece di andare in cerca di un «paese normale» che esiste solo nei sogni di normalizzazione dei «moderati» di destra e di sinistra, bisognerebbe rendersi conto che la fioritura dei più diversi esperimenti di vita e la proliferazione del dissenso contro ogni norma rappresentano le uniche garanzie perché la società libera resti tale. Come diceva lo stesso Einaudi: «L’optimum non si raggiunge mai nella pace forzata della tirannia». E neppure in quelle forme «partecipatorie» della libertà che di fatto hanno teso, nel corso del «secolo breve», a schiacciare l’indipendenza di pensiero (nella forma einaudiana di autonomia) sotto il tallone dell’ impegno coatto. Per rovesciare un celebre e citatissimo verso della nota canzone di Giorgio Gaber, dovremmo dire che la libertà non è partecipazione , ma è proprio uno spazio libero . Tale spazio libero si riempie di mutevoli figure che siamo poi disposti a cancellare proprio perché riteniamo che certe forme di pacificazione portino semplicemente a una «pace» che assomiglia sin troppo a quella dei cimiteri, mentre una perpetua inquietudine è la forma politica che corrisponde alla «meditazione della vita» che contraddistingue l’uomo libero spinoziano. Del resto, anche il «moderato» (?) Einaudi riteneva che solo nella lotta continua fra ideali in competizione può vivere un popolo: «Solo nella lotta, solo in un perenne tentare e sperimentare, solo attraverso a vittorie ed insuccessi, una società, una nazione prospera. Quando la lotta ha fine, si ha la morte sociale e gli uomini viventi hanno perduto la ragione medesima del vivere».