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 2011  marzo 21 Lunedì calendario

Gioiellino Parmalat, rapina francese tutte le mosse di Tremonti e Vegas - L’errore, forse, è stato di tempistica

Gioiellino Parmalat, rapina francese tutte le mosse di Tremonti e Vegas - L’errore, forse, è stato di tempistica. Lactalis non ci aveva pensato. Ma la scelta del 17 marzo – giorno del 150esimo compleanno dell’Italia – per annunciare in pompa magna l’acquisto dell’11,4% di Parmalat con l’intenzione di prenderne il controllo (senza Opa) non è stata un’idea geniale. A Roma c’era già maretta per i casi EdisonEdf, LvmhBulgari e per i blitz di Groupama su Fonsai. E la mossa del colosso transalpino su Collecchio è stata la classica goccia che ha fatto traboccare il latte dal vaso: Giulio Tremonti ha rotto gli indugi, convocando il consiglio dei ministri e preannunciando un provvedimento. A difesa delle imprese strategiche clonato (diabolico valtellinese) «sul modello francese». E l’intervento a gamba tesa dello Stato – supplente di un’imprenditoria tricolore latitante su Parmalat e non solo – rischia di essere la carta decisiva per scongiurare l’addio all’Italia dell’ex impero dei Tanzi per il quale è spuntato anche l’interesse della famiglia Ferrero. Il jolly calato dal ministro dell’economia – e rafforzato da una convocazione dell’ambasciatore francese nell’ufficio del sottosegretario Gianni Letta, manco fossimo in guerra con Parigi – ha sparigliato una partita che venerdì scorso sembrava decisa a favore di Lactalis. I tempi in cui le azioni si pesavano e non si contavano, come diceva Enrico Cuccia, sono finiti. Oggi, in teoria, conta solo il denaro. E il colosso della famiglia Bernier era convinto che i 600 milioni messi sul tavolo per rastrellare una partecipazione potenziale del 14,3% in Parmalat – sommata agli altri 600 pronti per salire fino al 29,9% – fossero più che sufficienti per spiazzare la cordata italiana cui sta lavorando senza troppo successo IntesaSanpaolo e i fondi esteri (Skagen, MacKenzie e Zenit) forti del 15% del capitale e pronti a presentare una loro lista per il cda. Parigi aveva fatto i conti senza l’oste. Il governo qualche segnale l’aveva già dato, blindando con un provvedimento ad hoc infilato all’ultimo minuto nel milleproroghe gli 1,4 miliardi di liquidità in cassa a Parmalat, nel mirino – temevano a Roma – degli appetiti dei fondi esteri. Era solo l’antipasto. L’annuncio del provvedimento sulle imprese strategiche (Parigi ha inserito nella sua lista gli yogurt della Danone) ha riaperto del tutto, ingarbugliandola, la guerra per Parmalat. E il finale, in vista dell’assemblea di fuoco del prossimo 14 aprile, è ancora tutto da scrivere. Il progetto Lactalis. La corazzata bretone dei Besnier, un riservatissimo colosso da 10 miliardi di fatturato che non pubblica bilanci dal 2001, ha le idee chiare. La scorsa settimana in tre giorni ha messo assieme, con la regia di SocGen, il blitz a Piazza Affari, presentando la sua lista per il cda. Poi, fiutato il clima, ha lanciato una crociata diplomatica per dimostrare la bontà delle sue intenzioni e il rispetto per l’Italia. «Il nostro è un progetto industriale – hanno detto – che punta a contribuire all’espansione di Parmalat lavorando nel rispetto delle realtà locali». Possibile? Certo, dicono in Lactalis. E la prova è che nessuno si è accorto che Galbani, Invernizzi e Cadermartori sono da tempo in mani francesi. Di più. I Besnier, consci del peso "morale" di Enrico Bondi hanno provato a offrire la presidenza al manager aretino. Che ha rispedito al mittente le avances candidandosi nella lista per il nuovo cda presentata da Intesa. Lactalis – malgrado l’intervento di Tremonti – sembra intenzionata a tirar dritta per la sua strada. L’occasione è unica: con una cifra modica – il 29,9% di Parmalat costa meno della cifra che era stata offerta per Yoplait – si metterà in tasca la più appetibile preda del mercato lattiero caseario mondiale rafforzandosi in un solo colpo in una serie di mercati strategici. Le occasioni perse dall’Italia. La strada per Intesa & C. è invece più stretta. E la mossa del Governo serve in realtà per dare a Ca’ de Sass il tempo necessario per mettere assieme un progetto industriale credibile convincendo qualche industriale a scendere in campo. Senza l’aiutino pubblico la vittoria tricolore a Collecchio sarebbe una mission quasi impossible. Intesa ha in portafoglio solo il 2,15% della società. E con i francesi in marcia verso il 29,9% ci sono solo due alternative: anticiparli salendo a quella quota o lanciare (ma siamo alla fantafinanza) un’Opa decisamente salatissima. La via più breve per la banca di Giovanni Bazoli sarebbe quella di appoggiarsi alla partecipazione dei fondi esteri che in assemblea, in linea teorica, potrebbero arrivare a coagulare un sostegno in grado di dar loro la maggioranza del consiglio. Se la somma tra i candidati eletti dai fondi, più quelli di Intesa e quelli eventuali di Assogestioni riuscisse a controllare il nuovo cda, la partita si riaprirebbe, magari anche senza l’aiutino di Stato. Ca’ de Sass avrebbe il tempo di cercare con calma i soci industriali con cui salvare la carta d’identità di Parmalat per poi dare un’onorevole, finanziariamente parlando, via d’uscita ai tre fondi. Come ovvio, si tratta di un puzzle molto complesso con ancora diversi tasselli da incastrare. L’unica altra alternativa di ripiego è venire a patti con i francesi. Magari convincendoli (antitrust permettendo) a farsi carico di Granarolo di cui Intesa ha in portafoglio il 19% costruendo così una minipartecipazione tricolore – di valore più estetico che sostanziale – nel nuovo gruppo. Il vero rammarico però è che il sistema Italia su Collecchio si sia mosso solo in zona Cesarini. Bondi ha sondato molti potenziali partner tricolori per il varo di un polo agroalimentare nazionale già tre anni fa, all’epoca in cui i titoli Parmalat, tra l’altro, quotavano solo 1,2 euro, meno della metà di oggi. E la difficoltà a far funzionare la public company era già chiara dal 2008 quando i fondi per la prima volta avevano cercato di dare l’assalto alla cassa raccolta con le cause, frenati a un passo dal traguardo dalla sapienza legale e giuridica dei consulenti del manager aretino. Qualche mea culpa devono farlo pure Granarolo e Banca Intesa. La società delle cooperative aveva studiato nel 2005 un ambizioso takeover di Parmalat. Ma poi aveva dovuto rinunciare. Motivo? Il prezzo, ma soprattutto il fatto che allora i conti del gruppo erano impallati dai pesantissimi oneri dell’acquisizione della Yomo, salvata dal fallimento con la regia di Ca’ de Sass, che – guarda caso – era il primo creditore degli yogurt della famiglia Vezeli. Il bilancio di Bondi. Il convitato di pietra di tutta la partita è Enrico Bondi. I fondi l’hanno accusato di immobilismo sul fronte delle acquisizioni. Lui, dice chi lo conosce, assiste con disincanto alla battaglia finale su Collecchio. Che in fondo è il miglior testimonial della bontà del suo lavoro. Ha preso le redini del gruppo Tanzi nel gelido dicembre del 2003 quando nel bilancio si è aperta la voragine da 14 miliardi. Ha tenuto in piedi l’industria isolandola dai guai della finanza (un miracolo fatto in pochi giorni su cui non in molti, allora, avrebbero scommesso), ha lavorato con il governo per disegnare la nuova legge che ha consentito di salvare impianti, posti di lavoro e la filiera lattiero casearia nazionale. Ha guidato il concordato, riportato in bonis l’azienda. Ha dato la caccia, cosa non scontata in un mondo dove la finanza è la voce del padrone, a banche, società di rating e revisori, costringendoli a transazioni che hanno portato oltre due miliardi nelle casse del gruppo, il tesoretto che oggi fa gola a tutti. Ha riportato in Borsa Parmalat e gli ex obbligazionisti travolti dal crac, se avessero tenuto in tasca le azioni fino a oggi, avrebbero recuperato quasi il 50% del capitale. Il manager aretino ha lavorato dietro le quinte alla creazione di un polo agroalimentare nazionale di dimensioni maggiori bussando alla porta di diverse realtà tricolori. Presto però si è reso conto che gli imprenditori di casa nostra investono volentieri nella bambagia delle concessioni pubbliche (energia, tlc, acqua, autostrade e aeroporti) salvo chiamarsi fuori quando c’è da sfidare il libero mercato. Da un paio di mesi, allora, ha iniziato a bussare, è successo almeno due volte, alla porta di Gianni Letta. «Mi vogliono far fuori da Parmalat? – continuava a ripetere – La parola però ce l’ha solo il mercato e alla fine a decidere sono gli azionisti». Lo pensava anche Lactalis. Ma forse, dopo il blitz di Tremonti, non è del tutto vero.