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 2011  marzo 21 Lunedì calendario

Da Ikea a Lidl, dal discount a Bulgari la "seconda vita" dell’Italia lowcost - Sarà anche vero, come dice la Confcommercio, che gli italiani hanno in tasca 570 euro in meno rispetto al 2007, però per completare il quadro bisogna tener conto di un aspetto della realtà: proprio in questi tre anni di crisi si è sviluppato un demimonde di sconti, prodotti a buon mercato, opportunità e occasioni senza precedenti

Da Ikea a Lidl, dal discount a Bulgari la "seconda vita" dell’Italia lowcost - Sarà anche vero, come dice la Confcommercio, che gli italiani hanno in tasca 570 euro in meno rispetto al 2007, però per completare il quadro bisogna tener conto di un aspetto della realtà: proprio in questi tre anni di crisi si è sviluppato un demimonde di sconti, prodotti a buon mercato, opportunità e occasioni senza precedenti. Ormai non ci sono solo più i mobili dell’Ikea o i voli Ryanair: anche le aziende italiane si sono attrezzate per offrire listini economici. Dalla moda all’alimentare, e perfino Bulgari ha abbassato il suo entrylevel a 850 euro per una linea di anelli in oro e ceramica: sono tanti, ma per la gioielleria è lowcost. Un indicatore efficace per testimoniare la crescita in Italia della cultura del lowcost è il successo degli outlet, i centri commerciali specializzati in abbigliamento di moda scontato dal 30 al 70% rispetto ai negozi (il vincolo è che siano di una collezione di almeno un anno precedente o abbiano impercettibili difetti di fabbricazione ovviamente dichiarati). «Il nostro outlet di Valmontone, 40 chilometri a sud di Roma, ha registrato un +8% di visitatori, fino a 6 milioni, e anche nell’annus horribilis 2009 il saldo era stato positivo», conferma Cristiano Tagliabue, manager della Fashion District, che gestisce anche gli outlet di Mantova e Molfetta, e i cui soci sono al 33% ognuno la Earchimede del gruppo Opa, l’immobiliare Draco di Mario Dora e la Mixinvest della famiglia Sandretto di Torino. A Valmontone c’è un’ulteriore prova dell’importanza dell’economia "indotta" del lowcost: il territorio è stato così valorizzato che il 26 maggio vi sarà inaugurato il parco a tema Rainbow Magic Land, creato con un investimento di 300 milioni dalla Alfa Park, di cui sono azioniste le stesse Draco (che aprì Mirabilandia a Ravenna), Fashion District e Mixinvest. Il parco darà lavoro a 1300 addetti dopo gli oltre mille dell’outlet. L’adesione al modellooutlet, va detto, non è unanime nel settore della moda. Sauro Degli Esposti, per esempio, 10 milioni di fatturato, è titolare con la sorella Narda del marchio Le Fate che sarebbe sulla stessa linea di quelli "da outlet", non cioè proprio top di gamma (Armani e Valentino negli outlet non ci sono) ma ragionevole nei prezzi e contemporaneamente alto di qualità, tipo Tacchini, Luisa Spagnoli, Lumberjack e altri che a Valmontone ci sono. «Noi vendiamo a prezzi non stracciati ma moderati, però preferiamo farlo attraverso i negozi tradizionali, 300 in tutta Italia, perché lì si crea un miglior rapporto fra noi e i commercianti nostri partner», spiega Degli Esposti, che ha intrapreso ora l’export verso Russia e Cina con gli stessi criteri. «Mi hanno contattato sia Valmontone che Serravalle ma ho preferito declinare l’invito». Il rapporto prezzoqualità, e poi l’intersezione di questo con la fiducia dei consumatori «risiede sempre in una delicata alchimia», spiega Luigi Bordoni, che in quanto presidente di Centromarca ha a cuore la tutela dei brand più prestigiosi in tutti i comparti del largo consumo. «Nel settore alimentare per esempio sono cruciali la selezione delle materie prime, l’innovazione continua dei processi produttivi e anche una comunicazione che contribuisca alla familiarità del prodotto». Non bisogna guardare solo ai prezzi, insomma. «Il lowcost ha una sua legittimazione perché implica una positiva diversificazione dell’offerta, ma non bisogna farsi ossessionare dal fattore prezzo. La riduzione eccessiva dei margini può portare a ridurre investimenti cruciali, a partire dalla tutela dei lavoratori. Robert Reich, che fu ministro del lavoro con Clinton, cita l’esempio di WalMart, la catena iperdiscount americana dove i dipendenti secondo lui sono sfruttati e malpagati, e conclude: vince il consumatore ma perde il cittadino». Va detto in ogni caso che la maggior parte dei prodotti lowcost fa capo ormai a multinazionali in cui la tutela dei lavoratori è garantita. La Renault per esempio ha lanciato il marchio economico Dacia con un successo tale che la rivale Peugeot sta facendo un’operazione analoga rispolverando il glorioso brand Simca. «Ormai Dacia si trova stabilmente entro i primi venti marchi in Italia commenta Jacques Bousquet, numero uno di Renault nel nostro paese e ha superato in immatricolazioni diverse case presenti sul mercato da molto più tempo: il tutto in cinque anni grazie ad un insieme di attività coerenti con il posizionamento low cost: una gamma di prodotti pratici, una politica commerciale trasparente, una comunicazione semplice e perfino un design accattivante». Un problema però lo solleva l’economista Paolo Leon: «Paradossalmente la corsa al ribasso dei prezzi può non essere un bene per l’economia, o perlomeno non bastare: se vogliamo una vera ripresa bisogna che i consumi si riprendano veramente, e con essi i profitti delle aziende. Può non essere una risposta il lowcost esasperato». Un’insidia parallela alle vendite a rate: «Anche qui si crea un’illusione di consumi che non corrisponde a una vera ripresa. Nelle rate, per inciso il lowcost non esiste, anzi con tassi anche dell’11% si finisce per pagare somme esorbitanti». Osservare gli spot delle aziende interessate offre altri spunti di riflessione. Molte aziende non insistono sul fattoreprezzo, per non incorrere in residue prevenzioni da parte dei consumatori: la Lidl, la catena di supermercati a basso costo tedesca, sta facendosi massicciamente pubblicità in Italia senza mai usare la parola discount, e Ovs, il brand di abbigliamento economico del gruppo Coin, nella sua comunicazione punta all’aspetto glamour dei suoi capi, e usa tutt’al più la denominazione di democratic wear. Quanto alla madre di tutte le aziende lowcost, l’Ikea, in occasione dell’inaugurazione del suo megastore di Catania ha tenuto ad annunciare una lunga serie di iniziative di responsabilità sociale nel nostro paese, a partire da 20 milioni di investimenti nel fotovoltaico: fra tetti e pensiline tutti i punti vendita saranno ricoperti di pannelli solari, fino a soddisfare le necessità d’illuminazione di tutte le showroom che di regola riempiono il pianoterra. Oltre 10 milioni di Kwh di energia elettrica (il 10% del fabbisogno complessivo dei punti vendita), che eviteranno ogni anno l’emissione in atmosfera di circa 4.000 tonnellate di Co2. Inoltre, ci spiega Lars Petersson, capo di Ikea Italia, «chiunque lavori con noi deve aderire al nostro codice di condotta denominato Iway: rispetto dell’ambiente, prevenzione degli incendi, salute e sicurezza dei lavoratori, stato a norma delle strutture; ossequio delle normative in materia di salari; prevenzione del lavoro minorile». I fornitori vengono controllati periodicamente da ispettori specializzati di Ikea Trading per verificare il rispetto del codice. Tutte queste aziende rientrano in un settore economico che Filippo Astone e Rossana Lacala, autori di Italia Low Cost (Aliberti editore), quantificano in 62 miliardi, il 5% del Pil, con tassi di crescita da un anno all’altro dell’8%. Un valore alto ma che potrebbe crescere ancora di più se si mettesse mano con maggior decisione ad alcune liberalizzazioni come quella dei farmaci generici: «Il nostro settore spiega Giorgio Foresti, presidente di Assogenerici vale 800 milioni su 10 miliardi di spesa sanitaria: l’8% contro il 55 della Germania. La Francia, che è partita come noi dieci anni fa, ha già superato i 3 miliardi». Come si spiega? «Con la resistenza, spinta dalla lobby farmaceutica, ad alcuni ritocchi legislativi che sarebbero decisivi. Va rafforzato l’obbligo per il farmacista di dare il generico, poi quello per il medico di indicare il principio attivo e non il prodotto commerciale, e andrebbe intrapresa un’azioneponte di qualche mese che privilegi i nuovi entranti come è stato nelle telecomunicazioni. Non è illiberale: servirebbe a modificare una cultura resistente all’innovazione. Se si vuole il farmaco commerciale su una ricetta "rossa" a carico del Ssn, bisogna pagare la differenza: e sono stati pagati 400 milioni nel 2010. Infine, si deve spingere presso i produttori di generici perché estendano la loro ricerca a tutte le molecole non più coperte da brevetto». Evitando gli sprechi, insomma, si porterà il low cost non più solo a livello dei consumatori ma anche di finanza pubblica.