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 2011  marzo 19 Sabato calendario

Il ritorno nell’ex colonia, cent’anni dopo - Quando l’Italia sbarcò sulle coste libiche erano i pri­mi giorni di ottobre del 1911

Il ritorno nell’ex colonia, cent’anni dopo - Quando l’Italia sbarcò sulle coste libiche erano i pri­mi giorni di ottobre del 1911. In quell’anno si celebrava il cinquantenario dell’Unità con uno spirito, carico di or­goglio per i risultati raggiun­ti, molto diverso da quello, percorso da recriminazioni antistoriche e da pulsioni se­cessionistiche, con il quale si sta festeggiando il centocin­quantesimo compleanno dell’Italia unita.È una coinci­denza curiosa - ma nulla più e solo come tale vale la pena di registrarla-ilfatto che l’Ita­lia potrebbe trovarsi, in qual­che modo, coinvolta in una operazione bellica contro la sua ex colonia. Tale, infatti, potrebbe apparire la conces­sione da parte dell’Italia di basi logistiche e, probabil­mente, anche di mezzi aerei per rendere operativa la riso­luzi­one approvata dal Consi­glio di Sicurezza dell’Onu vol­ta a creare, «con tutti i mezzi a disposizione» compreso l’uso della forza, la cosiddet­ta no-fly zone sulla Libia. E le minacce di Gheddafi, la sua promessa di creare «un infer­no » nel Mediterraneo sono eloquenti, anche se, a quan­to pare, le ultime notizie rife­riscono di un cessate il fuoco del governo libico nella sua azione di repressione dei ri­belli. L’ammonimento ri­guarda comunque, in primo luogo, l’Italia, proprio per­ché l’Italia è il Paese la cui sto­ria è, più di quella di altri, in­trecciata con le vicende dello Stato nordafricano. La guerra, intrapresa un se­colo fa da Giolitti per la con­quista della Tripolitania e della Cirenaica, fu,all’epoca, in Italia, molto popolare. Era stata preparata da tempo con una intensa attività diplo­matica durata anni ed era sta­ta resa possibile dall’evolve­re d­ella situazione politica in­ternazionale dopo che la Francia aveva occupato il Ma­rocco. Alle voci contrarie ­prima fra tutte quella dello storico Gaetano Salvemini che parlava di quel territorio che l’Italia voleva colonizza­re come di «uno scatolone di sabbia» - si erano contrappo­s­ti gli entusiasmi dei naziona­listi e di una parte dei sinda­calisti rivoluzionari, ma an­che le pressioni di ambienti economici e bancari e la sim­patia di larghi settori del mondo cattolico moderato. La conquista e la colonizza­zione di quel territorio erano visti non solo come un riscat­to, morale e politico, delle umiliazioni subite dall’Italia in Africa, ma anche, e soprat­tutto, come l’apertura di una valvola di sfogo per l’emigra­zione italiana. A rievocare il clima di quei giorni basta ricordare non so­lo le parole della canzone più popolare del tempo- «Tripo­li, bel suol d’amore, ti giunga dolce questa mia canzon! ­ma anche i versi delle canzo­ni delle gesta d’oltremare pubblicati da Gabriele D’An­nunzio sulle pagine del Cor­riere della Sera e il celebre di­scorso di Giovanni Pascoli che iniziava con le parole: «La grande proletaria s’è mossa». La guerra costò molto, ol­tre un miliardo di lire e mi­gliaia di morti, ma la guerri­glia, a pace conclusa, durò a lungo, quasi quindici anni in Tripolitania e più di venti in Cirenaica. Si erano succedu­ti­come governatori della Tri­politania Giuseppe Volpi di Misurata dal 1922 al 1925, Emilio De Bono dal 1925 al 1928, Pietro Badoglio, nomi­nato governatore unico della Tripolitania e Cirenaica. Poi, nel 1934, era cominciata l’era di Italo Balbo, come go­vernatore della Libia che riu­niva insieme Tripolitania, Ci­renaica e Fezzan. Fu l’epoca della colonizzazione vera e propria. Poi c’erano state la guerra, il dopoguerra, la de­colonizzazione, la monar­chia di re Idris I, poi nel 1969 il colpo di Stato che avrebbe portato al potere il colonnel­lo Muhammar Gheddafi. La dittatura di Gheddafi si caratterizzò subito come an­ti- italiana. Il motivo era sia di natura personale sia di natu­ra politica. Personale, per­ché Gheddafi proveniva da una famiglia beduina, che aveva combattuto contro gli italiani. Politica, perché il dit­tatore aveva bisogno, per supportare il proprio potere, di un mito fondativo cui fare riferimento per convogliare attorno a sé le forze del Pae­se. E il mito, la «leggenda ne­ra », non poteva essere che quello dell’Italia crudele, sfruttatrice e colonialista. Gheddafi era costretto a «co­struire », per così dire, una sto­ria della Libia in opposizione a quella Italia senza la quale essa non sarebbe neppure esistita per il semplice fatto che, nel 1911, al momento dell’occupazione italiana, in quei territori non esistevano altro che tribù, comunità iso­­late di pastori e mercanti: nul­l­a che potesse essere parago­nato a un embrione di Stato. Di fronte alle periodiche sfuriate anti-italiane di Ghed­dafi l’Italia fu accondiscen­dente e remissiva. Lo fu nel­l’ammettere le colpe del pro­prio passato coloniale, come fece per esempio Massimo D’Alema agli inizi del 2000 quando incontrò il colonnel­lo a Tripoli. E come fecero, pa­zienti e fiduciosi, anche altri, non escluso Silvio Berlusco­ni, nella convinzione che l’abilità della diplomazia e i rapporti commerciali ed eco­nomici potessero bilanciare le preclusioni politiche, cul­turali e ideologiche. Del re­sto, anche altri Paesi euro­pei, dalla Francia alla Gran Bretagna alla Germania, non esitarono a portare avanti, nei confronti del dittatore, una politica fatta di aperture e contatti che, privilegiando­ne una pretesa immagine di nemico dei fondamentali­s­mo e di elemento stabilizza­tore di una delicata area geo­politica, finiva per mettere da parte la stagione della rivo­luzione culturale del Libro Verde­quasi una versione li­bica del Libro Rosso di Mao ­o la stagione nella quale Gheddafi svolse il ruolo di im­prenditore e finanziatore del terrorismo internazionale. Comunque evolva la situa­zione, questa crisi conferme­rà l’insegnamento che i ditta­tori sono sempre dittatori.