21 marzo 2011
APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 21 MARZO 2011
Sembrava che tutto fosse fatto e che, anche senza interventi esterni, Gheddafi sarebbe stato obbligato a lasciare la Libia: il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite aveva dato il via (prematuramente) all’attivazione del Tribunale penale internazionale, il Consiglio Europeo aveva tolto al Raiss ogni legittimità internazionale. Purtroppo, nel giro di pochi giorni la situazione politico-militare si è modificata a svantaggio dei rivoltosi. Quando l’ipotesi originaria di creare una zona d’interdizione aerea (no-fly zone) appariva ormai superata dagli sviluppi sul terreno, giovedì è arrivato il via libera dell’Onu. [1]
La risoluzione 1973 ha autorizzato la no-fly zone e l’uso della forza con la sola esclusione, per ora, dell’occupazione militare. Carlo Jean: «Le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sono sempre ambigue, perché frutto di compromessi. Lo è particolarmente quella n° 1973 sulla Libia. Proposta dalla Francia e dal Regno Unito è stata approvata giovedì sera da dieci membri del Consiglio. Si sono astenuti due con diritto di veto: Russia e Cina, a cui si sono aggiunti Germania, India e Brasile. La risoluzione “autorizza l’impiego di tutte le misure necessarie a proteggere le popolazioni civili e le zone abitate da civili, inclusa Bengasi”. Auspica l’impegno anche di Stati arabi. Prescrive, poi, il mantenimento dell’unità della Libia». [2]
L’interpretazione corrente è che la 1973 non permetta attacchi contro le forze terrestri fedeli a Gheddafi, il suo vero punto di forza. [2] Fabio Mini, già comandante della forza internazionale di pace in Kosovo e Capo di Stato maggiore Nato in Sud Europa: «La no-fly zone non è un atto militarmente determinante. Può essere imposta per anni su un Paese, senza toccare davvero la sua forza militare». [3] Marta Dassù: «La partita è appena cominciata. Si svolge nel nostro cortile di casa. Coinvolge interessi essenziali del nostro Paese, dalle forniture energetiche al controllo dei flussi migratori. Non sarà una partita breve: come dice la sua storia personale, Muammar Gheddafi giocherà una serie di mosse e cercherà di farcela pagare, prima di cedere». [4]
La decisione di picchiare duro sulle forze di Gheddafi, prevenendo così un attacco finale a Bengasi, è stata trainata dalla Francia. Dassù: «Nicolas Sarkozy ha deciso di puntare tutte le sue carte sulla caduta del Raiss, per recuperare prestigio domestico e per fare dimenticare i legami fra il suo governo e il regime di Ben Ali in Tunisia. La foga di Parigi ha scosso anche Londra, rimasta su una posizione più cauta; accettata la linea interventista, David Cameron ha cercato a sua volta di smuovere Washington dall’attendismo delle ultime due settimane. Il resto lo hanno fatto le minacce di Gheddafi; quando il Raiss di Tripoli ha annunciato che avrebbe azzerato l’opposizione di Bengasi, Barack Obama ha capito di non potere più esitare. Pena una perdita secca della credibilità degli Stati Uniti». [4]
Secondo alcuni esperti di politica estera, la svolta di Obama nuoce agli interessi americani, perché «dà l’impressione che la Casa Bianca non abbia una strategia e navighi a vista». Per altri è invece prova del pragmatismo del presidente Usa, che non segue ideologie per arrivare a una decisione, ma si basa sul dibattito interno alla sua Amministrazione, divisa fra i favorevoli all’intervento militare (il segretatio di Stato Hillary Clinton, l’ambasciatrice all’Onu Susan Rice, il vicepresidente Joe Biden) e i contrari (il segretario alla Difesa Robert Gates, il consigliere per la Sicurezza Nazionale Tom Donilon). [5]
Secondo i più recenti sondaggi, alle presidenziali del prossimo anno Sarkozy non arriverebbe neppure al ballottaggio, battuto sia dal socialista Dominic Strauss Kahn che da Marine Le Pen. Angelo Allegri: «Le rivolte di Egitto e Tunisia hanno dimostrato che Sarkò in Africa del Nord ha sbagliato tutto o quasi: Ben Alì e Mubarak erano due dei pilastri su cui voleva l’Unione mediterranea, progetto politico-diplomatico a cui aveva legato molti dei suoi sogni di grandezza. In più il suo governo (sia il premier Fillon, sia l’ex ministro degli Esteri Alliot-Marie) aveva mostrato una sospetta vicinanza con i corrotti regimi al potere. Ce n’era abbastanza (anche trascurando le accuse del figlio di Gheddafi, che dice di avergli pagato la campagna elettorale) per cambiare politica e fare la faccia feroce». [6]
La Gran Bretagna è alla ricerca di un posto da protagonista sulla scena internazionale. Giovedì il premier David Cameron si è presentato in Parlamento evidentemente euforico. Andrea Malaguti: «Da nove giorni spingeva per un intervento militare. Gli avevano dato del matto. Dell’incompetente. Aveva tremato lui e aveva tremato il suo ministro degli Esteri, William Hague, che quando iniziò la rivolta annunciò la fuga del raiss in Venezuela. Rise mezzo mondo. Anche Obama prese le distanze. “Ragioniamo”. Sembrava una disfatta. Poi Gheddafi aveva cominciato a sparare sulla sua gente. Era stato in quel momento che Sarkozy aveva messo in campo il suo peso. Nella notte tra giovedì e venerdì la telefonata decisiva tra Washington, Parigi e Londra. Una vittoria di Sarkozy o di David Cameron?». [7]
Giovedì la Germania si è astenuta. Il ministro degli esteri Guido Westerwelle: «I cosiddetti interventi “chirurgici” non esistono. Ogni intervento militare comporterà anche vittime civili. Ne abbiamo avuto prove dolorose». La scelta di Merkel & C. pare dettata soprattutto dal panico in vista delle elezioni regionali (iei in Sassonia-Anhalt, domenica prossima in Baden-Württemberg e Renania Palatinato). [8] Cina e Russia non hanno opposto il veto alla risoluzione Onu. Jean: «Ragionevole è il dubbio che lo abbiano fatto per creare nuovi problemi all’Occidente, “obbligandolo” ad un’iniziativa senza via d’uscita». [2]
Quanto all’Italia, la vicinanza della Libia rende la situazione molto diversa da quella in Iraq e Afghanistan. Guido Rampoldi: «La Libia appartiene alla nostra geografia - è a un tiro di Scud da Lampedusa - e alle pagine della nostra storia (non le migliori: laggiù la nostra aviazione inventò il bombardamento di popolazioni civili, 1911). È perfino un pezzo non irrilevante della nostra economia». [9] In prima linea dal punto di vista geografico, l’Italia lo sarà anche da quello militare perché il controllo della no-fly zone potrebbe durare anni e le nostre basi, i nostri radar, le nostre navi saranno essenziali. Mini: «Saremo soggetti ai rischi di ritorsioni libiche già annunciate: parlano di terrorismo e di “bomba migratoria”». [10]
Gheddafi ha già dimostrato in passato di saper organizzare e pagare terroristi capaci di colpire aerei e piazzare bombe. Andrea Nativi (direttore della Rivista italiana difesa): «Però queste operazioni furono organizzate per tempo e attuate nello scenario pre Undici settembre. Oggi le cose sono profondamente cambiate, in meglio per la sicurezza interna occidentale. E Gheddafi non ha avuto modo e tempo di preparare qualcosa, né dispone di “martiri kamikaze”». [11] L’ex ministro degli Esteri Gianni De Michelis: «I rischi ci sarebbero stati se non fosse stata presa la decisione di intervenire: si sarebbe dato un via libera non solo a Gheddafi ma all’Iran e a Hezbollah». [12]
Potrà volerci tempo, come è stato nel caso di Milosevic o in quello di Saddam Hussein, ma la fine di Gheddafi è cominciata. Dassù: «E se è davvero così, l’Italia non ha nessun interesse a lasciare che siano la Francia e la Gran Bretagna a disegnare il futuro della Libia. Una linea di disimpegno alla tedesca, nel nostro cortile di casa, non sarebbe pagante. Del resto, lo scenario peggiore, per l’Italia, sarebbe un Gheddafi apertamente “nemico” ma ancora in sella, con i rischi e i costi (sanzioni petrolifere) della situazione. Anche lo scenario di una guerra protratta fra tribù, con la frantumazione della Libia, sarebbe pessimo per il nostro Paese: avremmo una Grande Somalia appena al di là del Mediterraneo». [4]
La risoluzione dell’Onu potrebbe essere responsabile della divisione della Libia in due Stati: la Tripolitania di Gheddafi e la Cirenaica dei ribelli. Sergio Romano: «“Ribelli”, senza meglio qualificarli, perché di loro ignoriamo quasi tutto. Sono l’appendice libica della Fratellanza musulmana? Sono l’ultima incarnazione della Senussia, la congregazione religiosa a cui apparteneva il primo e unico re della Libia post-coloniale? Sono membri di tribù ostili a Gheddafi? Sono giovani democratici, ansiosi di rinnovare le istituzioni del loro Paese?». [13]
Sopravvissuto al bombardamento di Reagan nell’86, Gheddafi potrebbe farcela anche questa volta. Alberto Negri: «Se riesce a frenare o a limitare l’intervento militare esterno, il Colonnello ha buone possibilità di restare in sella per negoziare l’uscita di scena: ma come? La comunità internazionale e il Consiglio di Bengasi non sono disposti a trattare con lui. Servirà quindi una mediazione, con la partecipazione di stati che si sono già offerti, come la Turchia, e di qualche paese arabo o africano disposto a ospitarlo. Al Colonnello possono essere utili alcuni alleati: tra gli arabi che lo tengono in piedi ci sono la Siria, il Sudan del generale Bashir - sezione catturandi del tribunale dell’Aja - e anche gli algerini sono disposti a sostenere un suo addio non destabilizzante. Così come la Russia e la Cina, quest’ultima affamata più di petrolio arabo che di democrazia. Ma dietro le quinte c’è anche un Israele che, in silenzio, teme una Libia preda di influenze integraliste». [14]
Se gli si offrisse una sorta di esilio interno, però ben mascherato, e corredato di garanzie per se e per i suoi figli, Gheddafi potrebbe accettare. Rampoldi: «Dunque il negoziato va tentato. Ed è ipocrita che gli occidentali lo pensino ma non lo dicano, prigionieri come sono di una moralità a buon mercato che prescrive di non parlare con Gheddafi perché ha sparato sul Popolo». [9] Massimo Fini: «Nessuno ha mai proposto una “no fly zone” in Cecenia dove le armate russe di Eltsin e dell’“amico Putin” hanno consumato il più grande genocidio dell’era moderna: 250 mila morti su una popolazione di un milione. Nessuno si sogna di intervenire in Tibet (chi si metterebbe mai, oggi, contro la succulenta Cina?) o in Birmania a favore dei Karen. E così via». [15]
Non si fa peccato a sparare sui caccia di Gheddafi, se questo davvero ferma le sue truppe. Rampoldi: «Ma se bombardare significa continuare a illudere gli insorti nella vittoria militare e a incitarli a non trattare, magari unicamente perché in Europa qualche Napoleone da strapazzo deve gonfiar le penne e qualche sodalizio petrolifero vuole affacciarsi sui pozzi di Bengasi, allora quello non sarebbe soltanto un errore, sarebbe un crimine. E stavolta non ci sarebbe perdonato. Basta seguire la tv al Jazeera per constatare i mutevoli umori delle opinioni pubbliche arabe». [9]
Note (tutte le notizie sono tratte dai giornali del 19/3): [1] Antonio Puri Purini, Corriere della Sera; [2] Carlo Jean, Il Messaggero; [3] Stefano Citati e Roberto Festa, il Fatto Quotidiano; [4] Marta Dassù, La Stampa; [5] Elena Molinari, Avvenire; [6] Angelo Allegri, Il Giornale; [7] Andrea Malaguti, La Stampa; [8] Guido Ambrosino, il manifesto; [9] Guido Rampoldi, la Repubblica; [10] Fabio Mini, la Repubblica; [11] A. Nat., Il Giornale; [12] Ant. Ram., La Stampa; [13] Sergio Romano, Corriere della Sera; [14] Alberto Negri, Il Sole 24 Ore; [15] Massimo Fini, il Fatto Quotidiano.