Alberto Grimelli, ItaliaOggi 19/3/2011, 19 marzo 2011
RADIAZIONI NEL PIATTO, PER 50 ANNI
Il terremoto, lo tsunami e la crisi nucleare giapponese, dopo aver colpito e scosso l’immaginario collettivo, ora finiscono sulle nostre tavole. Europa e Italia si sono mosse per preservare la salute dei propri cittadini da importazioni di derrate alimentari che potrebbero essere contaminate. La Commissione europea, fin dal 15 marzo, ha raccomandato, attraverso il sistema rapido di allerta comunitario per alimenti e mangimi, di «effettuare analisi sul livello di radioattività nei prodotti per l’uomo e per gli animali importati dal Giappone».
Il giorno successivo il nostro ministro della salute Ferruccio Fazio ha annunciato una serie di misure restrittive, di fatto un blocco delle importazioni, relative a «prodotti ittici pescati dopo l’11 marzo, come crostacei congelati, preparati, farine e caviale, e a prodotti di origine vegetale come per esempio salsa di soia, thè verde, e alghe». La reazione del governo italiano alla crisi giapponese ha però sorpreso le autorità di Bruxelles. «L’Unione europea tutta intera importa molto poco dal Giappone nel settore agroalimentare, nel 2010 l’equivalente di appena 65 milioni di euro, e l’Italia non è nemmeno fra i primi cinque importatori, che sono Germania, Olanda, Gran Bretagna, Belgio e Francia», ha dichiarato il portavoce del commissario europeo alla salute e politica dei consumatori, John Dalli. Ma è giustificato l’atteggiamento italiano? «Purtroppo le conseguenze dell’inquinamento da radionuclidi nella catena alimentare sono ancora poco prevedibili e dipendono dalla portata dell’evento e da moltissime variabili meteorologiche, chimico fisiche e geologiche. Ci sono conseguenze immediate e possibilità di elevato inquinamento di cibi freschi (latte, pesce e carne) e conseguenze a lungo termine - conferma Tullia Gallina Toschi, ricercatrice presso il Dipartimento di scienze degli alimenti dell’Università di Bologna - Secondo una comunicazione pubblicata nel 2000 su Nature da ricercatori dell’Università di Harvard e di Boston, l’alta mobilità del cesio 137 nell’ambiente fa sì che alcuni alimenti possano restare contaminati per un tempo molto maggiore del previsto. I grandi rischi per noi non sono nell’immediato, non sono nelle salse di soia che avremo sugli scaffali la prossima settimana, ma piuttosto nelle carni, nei pesci, nei funghi, nelle alghe e nei latticini che potrebbero arrivare da zone inquinate da radionuclidi nei prossimi 50 anni, quando si spegneranno i riflettori dei media». Occorre quindi guardare anche alla tipologia di alimenti che importiamo dal Giappone, senza dimenticare che potrebbero verificarsi fenomeni di triangolazione commerciale per eludere i controlli sulla reale origine dei prodotti. Dal Sol levante in Italia arrivano soprattutto fiori e piante per un importo di circa 3 milioni di euro nel 2010 e a seguire quantità marginali di semi oleosi (1,6 milioni), di bevande alcoliche (1,6 milioni), di oli vegetali (0,9 milioni), di prodotti dolciari (0,9 milioni), di pesce (0,7 milioni) e di thè (0,3 milioni). «Il pesce rappresenta probabilmente la maggiore incognita oggi», continua Tullia Gallina Toschi, «perché al problema radioattività, dovuta alle fuoriuscite di radionuclidi dalla centrale di Fukushima, si aggiunge l’ipotesi di inquinamento per effetto dello tsunami. Il mare è entrato in profondità in aree molto urbanizzate e industrializzate, per poi ritirarsi e portare con sé una quantità indefinita di agenti inquinanti. Metalli pesanti, idrocarburi ed altre sostanze tossiche hanno certamente contaminato l’Oceano con effetti ancora non noti sull’ecosistema marino. Inoltre, se per molte filiere agroalimentari il gravissimo incidente avvenuto a Chernobyl il 26 aprile 1986 ha fornito, purtroppo, molti dati sui fattori di rischio e sulle misure da adottare per ridurre la contaminazione alimentare e per avviare le bonifiche ambientali, in ambiente marino non esiste una letteratura che possa venire in soccorso». Il vero lavoro, per gli istituti e le istituzioni tecnico-scientifiche, insomma, inizia ora. Una volta che la situazione si sarà stabilizzata occorrerà effettuare ricognizioni puntuali per stabilire le zone contaminate, il grado di radioattività delle stesse e controllare il rischio per le catene alimentari nel lungo termine. I dati del Chernobyl Forum, di cui fanno parte otto agenzie dell’Onu e che sono scaturiti dai lavori scientifici di centinaia di ricercatori, possono certamente venirci in aiuto. Motivo di allarme immediato sarà lo iodio radioattivo, riscontrato in grandi quantità nel latte subito dopo l’incidente nucleare in Ucraina, in seguito al suo rapido assorbimento nell’erba e nel foraggio. Considerando, però, il breve periodo di decadimento di questo nuclide, i danni saranno limitati a pochi anni. Diverso il caso del cesio 137 riscontrato nel latte, nella carne, nei funghi e in alcuni vegetali. Il cesio, infatti, insieme con lo stronzio, ha tempi di dimezzamento della radioattività maggiori di trent’anni e rappresenta quindi un grave problema a lungo termine. Per quanto riguarda il plutonio, invece, sebbene resti attivo forse per migliaia di anni, il suo contributo all’esposizione umana è ritenuto basso dal Chernobyl Forum.