Giorgio Meletti, il Fatto Quotidiano 19/3/2011, 19 marzo 2011
ADDIO A GHIDELLA E AI SEGRETI DEL DECLINO FIAT
Chi ha meno di 35 anni non sa chi era Vittorio Ghidella, morto a 80 anni appena compiuti a Lugano. E non lo sa perché su quest’uomo che ha scritto pagine gloriose dell’industria italiana si è stesa da vent’anni un’impenetrabile coltre di silenzio. La condanna all’oblio gli fu comminata dalla Fiat, l’azienda che negli anni Ottanta fu portata da questo silenzioso ingegnere di Vercelli a successi mai conosciuti prima, né tanto meno dopo.
Eppure molti giovani (e meno giovani) disoccupati potrebbero rintracciare nella parabola di Vittorio Ghidella un esempio assai calzante delle patologie che hanno innescato, proprio nei “favolosi” anni Ottanta, i meccanismi inesorabili del declino di cui oggi stiamo pagando il prezzo.
GHIDELLA FU chiamato alla guida di Fiat Auto dall’Avvocato Gianni Agnelli nel 1979. La casa torinese era in una crisi drammatica. C’era il terrorismo, c’era il conflitto sindacale. Mentre Agnelli e Cesare Romiti risolvevano la parte politica del problema, Ghidella progettava auto. Nel 1983 tirò fuori la Uno. Un successo mondiale senza precedenti, un’utilitaria razionale e “risparmiosa”, come recitava l’azzeccata campagna pubblicitaria che spiegava agli italiani quanto consumasse poco il nuovo motore Fire 1000. Seguirono altri prodotti talmente belli che non sembravano prodotti a Torino: la Thema, per esempio, che piaceva più di Mercedes e Bmw. E poi la Croma, la Lancia Delta, la Tipo e la Auto-bianchi Y10.
Il grande capo della Fiat di allora, Romiti, decise che Ghidella gli faceva ombra. Ingaggiò una lotta di potere senza requie. Accusò il capo di Fiat Auto di traffici poco puliti con la Roltra, un’azienda che forniva i sedili per la Croma. Ghidella ha sempre respinto le accuse, e comunque abbiamo poi scoperto grazie a Mani pulite che gli affari loschi dentro gli uffici di Corso Marconi erano la regola.
NEL 1988 GHIDELLA fu cacciato. Se ne andò in Svizzera, è praticamente scomparso dalla circolazione. Però il 1 aprile 1995, quando i magistrati che indagavano sulle porcherie contabili della Fiat andarono a interrogarlo a Campione d’Italia, non tacque. Solo che raccontò cose che i giornali italiani non hanno mai, per così dire, approfondito. Ghidella spiegò che la Fiat faceva sparire soldi all’estero e quindi gli utili risultavano più bassi del reale. E che i manager come lui, prendendo i premi sulla base dei guadagni “veri”, andavano a fine anno da Romiti per verificare i conti reali, non quelli che venivano scritti nel bilancio. Ghidella ricordava che, fatti i conti, dopo qualche giorno gli veniva versato un assegno “estero su estero” con il conguaglio. “Questo assegno”, precisò l’ingegnere, “ammontava per me sulle lire 50 milioni, come cifre finali. Anzi: partì da circa 30 milioni all’anno e arrivò sino a lire 100 milioni”. Quando versava l’assegno proveniente dalla banca Credit Suisse sul suo conto presso la Banca Hofmann, Ghidella non riceveva alcuna ricevuta di versamento, per non lasciare traccia del movimento di denaro. Così fece, presumibilmente, al momento dell’addio: ricevette una liquidazione di 500-600 milioni circa con pagamento in nero estero su estero.
GHIDELLA RIFERÌ anche dei prelievi mensili dai conti di Fiat Auto (l’azienda di cui era a capo) per alimentare le attività dei dirigenti più attivi nei rapporti con politica, sindacati e giornalisti. Lui sapeva che questi fondi venivano, presumibilmente, utilizzate per remunerare sindacalisti e giornalisti. Per quanto riguarda la stampa, la remunerazione era costituita prevalentemente da vetture in prova, nuove, che venivano tenute a lungo dai fortunati “collaudatori”, fino a che potevano comprarle a un prezzo dell’usato più un forte sconto.
Ghidella ricordò anche che la Fiat faceva i soldi truffando lo Stato, anzi derubando il futuro del Paese. Il governo finanziava la ricerca tecnologica, pagando a pie’ di lista le spese e le ore lavorate a quello scopo. La Fiat gonfiava il conto e si metteva in tasca la differenza. Per molti anni dunque, lo Stato ha pagato profumatamente per una ricerca in campo automobilistico che non è mai stata fatta. Con i brillanti risultati che abbiamo potuto verificare: il passaggio dalla Uno alla Duna è figlio anche di quel sistema.
MA NELLA VICENDA di Ghidella è importante anche l’aspetto più propriamente industriale. Quando Agnelli, che aveva tentato di mediare nella lotta senza quartiere tra Romiti e Ghidella, cedette alla voglia del primo di comandare da solo, l’ingegnere di Vercelli si lasciò scappare solo un’affilata battuta: “Non ci si improvvisa ingegnere dell’auto a 60 anni”. Ma Romiti, laureato in economia, manager totalmente finanziario, volle anche la guida di Fiat Auto, oltre a quella della holding. E la tenne per due anni, prima di cederla a un fedelissmo, Paolo Cantarella.
Proviamo a rivedere la storia in una prospettiva storica. É il 1988, in Italia governa Ciriaco De Mita, che ha il doppio incarico di presidente del Cosniglio e segretario della Dc. Si avvicina la stagione del Caf (Craxi-Andreotti-Forlani) che porterà le patologie della Prima repubblica all’acme, prima dell’esplosione di Tangentopoli (1992). Un anno prima Carlo De Benedetti ha dilapidato la liquidità dell’Olivetti nella sfortunata scalata alla finanziaria belga Sgb, compromettendo il futuro dell’azienda di Ivrea nella competizione mondiale dell’informatica. Raul Gardini ha appena scalato la Montedison.
È LA STAGIONE in cui i nostri “condottieri” abbandonano l’industria e si dedicano ai soldi facili con la finanza. E con le tangenti. Sono gli anni in cui la Fiat compra la Cogefar, prima azienda italiana nella costruzioni, e si lancia nel business delle opere pubbliche: il culmine sarà il gigantesco affare dell’alta velocità, concluso nel 1991. Romiti teorizza, e pratica, la ricerca del profitto nella “diversificazione”, con uno stuolo di economisti a gettone pronti a predicare che questa era la strada del benessere nazionale. Se ci si guarda indietro, è stato l’inizio della fine. La Fiat non si è più ripresa.
E che c’entrava in tutto questo Ghidella? Niente. Era uno che sapeva solo fare buone automobili, quelle che da allora abbiamo imparato a comprare da tedeschi e giapponesi. La sua morte non è stata accompagnata da nessun messaggio di cordoglio. Nessuno.